Auguri!



Auguriamo a tutti voi
Buon Natale
e
Felice Anno Nuovo!

Tempo di AVVENTO, ovvero ESSENZIALITÀ



Miei Cari,
tra le letture e gli approfondimenti di questi giorni, mi ha segnato il concetto di “Avvento, come tempo dell’essenzialità”. Non è questo il tema e il contenuto sui quali stiamo tornando spesso in questi ultimi tempi? Difatti, l’Avvento, pur essendo un tempo liturgico breve, arricchito di solennità e memorie che hanno assunto quasi un ruolo principale, tanto da frammentare l’attesa con un senso di compiutezza, esprime nei migliori dei modi il senso del cammino credente, sottolineato più volte nella stessa quotidiana celebrazione eucaristica: nell’attesa della tua venuta.
L’Avvento non è solo attesa di ciò che deve venire, ma anche slancio verso ciò che si completerà. Avvento è slancio da non impoverire con lo scintillio delle luci, delle vetrine o dell’apparenza, dall’opulenza o dal superfluo. Per noi invece il tempo di Avvento deve farsi tempo dell’essenzialità; ce lo ricordano molto bene le figure del Battista e di Maria. Essenzialità per noi deve assumere un significato profondo: ricerca. Scrive opportunamente M. Francavilla che l’essenzialità oggi si presenta come ricerca, come gusto di ricercare ciò che è perduto, ricercare uno stile di vita confacente, una sobrietà che sottolinei il giusto valore delle cose.
Chi attende non si distrae, non sposta l’attenzione da ciò che conta. Solo così il tempo di Avvento, puntando sulla Essenzialità assumerà altri nomi: Prossimità, integrazione, sostegno,condivisione, servizio. In una parola “Incarnazione”. S.Paolo infatti afferma che Cristo ha percorso la via dell’essenzialità non solo per arrivare all’uomo, ma soprattutto per farsi “Uomo”. Noi diventeremo uomini nuovi che introdurranno la speranza nel mondo, donandola a chi non vede il domani, a chi è deluso del mondo in cui viviamo, a chi ne ha paura.
È così che voglio formulare l’augurio a tutti e a ciascuno di voi mentre ci avviamo verso il Natale di Gesù.

Cordialmente Don Vincenzo

1982 - 8 Dicembre - 2007



Mentre l’8 dicembre 1982 celebrava il suo XXV di sacerdozio, il tanto amato Don Tonino faceva il suo ingresso nella Diocesi di Ruvo (era stato eletto il 30 Settembre 1982). Mai dimenticheremo la gioia e la festa che la nostra comunità gli tributò mentre Egli si apprestava ad attraversare la nostra città,vestito dei paramenti sacri, indossati nella nostra chiesa parrocchiale.
Il prossimo 8 Dicembre avrebbe compiuto 50 anni di sacerdozio. Oggi lo pensiamo valido Intercessore essendo, ormai nella sfera dell’amore infinito di Dio

PERCHE’ RUVO NON CRESCE

Pochi giorni ci separano dal 2008, che speriamo sia un anno migliore per il nostro paese, segnato
da un andazzo che lascia perplessi, talvolta increduli quando non rassegnati. Diciamo subito che la rassegnazione è un sentimento da evitare con cura, perché inclina al nero, cioè ad un pessimismo senza via d’uscita, ad una sorta di depressione collettiva. Per il rassegnato “non c’è più nulla da fare, nulla è destinato a cambiare, tutto è fermo”.
L’incredulità invece nasce in un animo ancora aperto alla speranza, fondamentalmente ottimista, capace ancora di provare meraviglia. L’incredulo ruvese si domanda esterrefatto se ciò che capita nel suo paese (rectius: non capita) sia vero o frutto della sua fervida fantasia oppure il risultato della generale rassegnazione.
Come mai a Ruvo non capita mai niente? Come mai non si avverte un desiderio si riscatto, di rivincita, di rinascita? Come mai si respira un’aria malsana o di ritirata? E chi l’ha suonata? Sono le domande che si pone l’incredulo, che, essendo anche un po’ingenuo, resta a bocca aperta dinanzi alla montante marea dei “nulla di fatto”, dei rinvii, delle promesse non mantenute, delle incapacità ed inettitudini, delle lamentazioni che riecheggiano quelle bibliche di Giobbe. I perplessi invece appartengono alla schiera dei dubbiosi, e si sa che il dubbio è il padre della filosofia, laddove la meraviglia ne sarebbe la genitrice. I perplessi filosofano, discettano, argomentano, additano al pubblico ludibrio o quello a seconda dell’umore o della propria
convenienza. Talvolta partoriscono qualche buona idea che, a causa della tendenza dubitativa e cogitabonda, subito si dilegua nell’aere circostante. Per darsi un tono spesso dicono di essere dei progettisti, di avere idee avanzate e progressiste, ma in realtà sono profeti dell’incertezza e della paralisi. Difatti, perplesso è sinonimo di incerto, e dagli incerti, anche quando per mero caso dovessero trovarsi a fare politica, non bisogna aspettarsi granché. Prima di muovere un passo devono avere ottenuto ampie rassicurazioni, devono essersi cinti i fianchi di consigli e cautele, salvo poi pentirsene quasi subito. Spesso vengono indicati con l’espressione di “tenutari delle carte a posto”. A scanso di equivoci gli integerrimi tenutari della legalità (formale) non appartengono solo al mondo della burocrazia o della politica, ma anche alla società o a quella parte di essa che esibisce un ordine esteriore, o almeno una sua parvenza, mentre all’interno è tutto un brulicare di vermi ed una fermentazione di putridume.
Più o meno in questi termini Gesù si rivolse ai farisei e ai dottori della legge, depositari, appunto, ed interpreti rigorosi di una legge formale, fatta di centinaia di prescrizioni e divieti, a cui non corrispondeva nessuna forma di amore concreto per il prossimo, quindi qualcosa di realmente positivo. Li definì “ipocriti”, una parola che proviene dal greco e che significa “attore”.
I teorici della massima legalità (formale) sono i migliori attori ma i peggiori nemici dell’uomo e delle comunità umane. Come mai allora a Ruvo c’è questo andazzo generale, che è cosa diversa da un normale andamento delle cose e della vita politica e sociale? Come mai nel nostro paese si ricorre all’anonimato per calunniare gli avversari politici? Come mai - ma questa è una metafora – nei pressi della Posta centrale c’è un segnale stradale che indica l’imbocco di un autostrada laddove c’è solo un dedalo di vie cittadine? A Ruvo autostrade non ce ne sono, ci sono semmai vie e viuzze secondarie, molte delle quali fatte a groviera, alcune rattoppate alla meglio. È appunto una metafora della condizione culturale in cui versa il nostro paese, che non dovrebbe dimenticare quanto detto da Gesù a proposito dei rattoppi o del vino nuovo in otri vecchi: i rattoppi lacerano gli abiti, il vino nuovo necessita di otri nuovi. Quindi, perché questo andazzo? Semplicemente perché non si va più alla sostanza delle cose o al merito, si è superficiali, ci si trincera dietro la montagna delle carte, dei codici, dei commi e dei regolamenti, spesso contraddittori fra loro, non si semplifica (semplificazione non vuol dire libertinaggio), si ama meno la propria comunità, ci si preoccupa esclusivamente di far tornare la sostanza dei propri conti. Tutto il resto, quindi tutto il meglio, viene purtroppo consegnato al formalismo delle leggi, alle dispute infinite dei perplessi di professione, ai profeti dell’incertezza e agli specialisti del rinvio, affinché, con le loro specifiche competenze ed inclinazioni, ne traggano abbondanti e capziose ragioni per frenare la crescita civile, culturale, sociale ed economica della città.

Salvatore Bernocco

1969 - 7 Dicembre - 2007

Grazie, Signore, per il dono del Sacerdozio!
A don Vincenzo, nell’Anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale
il nostro affetto e la nostra preghiera, mentre si avvicina la data della
ricorrenza del suo XXV di Parrocato tra noi.


Il Sacerdote
E’ l’uomo più amato e più incompreso;
il più cercato e il più rifiutato.
E’ la persona più criticata,
perché deve confermare
con il suo esempio
l’autenticità del messaggio.
E’ il fratello universale,
il cui mandato è solo quello di servire,
senza nulla pretendere.
Se è santo, lo ingoriamo;
se è mediocre, lo disprezziamo.
Se è generoso, lo sfruttiamo;
se è” interessato”, lo critichiamo.
Se siamo nel bisogno, lo assilliamo;
se vengono meno le necessità,
lo dimentichiamo.
E solo quando ci sarà sotratto
comprenderemo
quanto ci fosse indispensabile e caro.

Nessuno è straniero

Il tuo Cristo era un ebreo,
la tua automobile è giapponese,
la tua pizza è napoletana,
il tuo profumo è francese,
il tuo riso è cinese,
la tua democrazia è greca,
il tuo caffè è brasiliano,
il tuo orologio è svizzero,
la tua cravatta è di seta italiana,
la tua radio è coreana,
le tue vacanze sono turche,
tunisine o marocchine,
i tuoi numeri sono arabi,
le tue lettere sono latine…
E… tu rinfacci
al tuo vicino di essere
“uno straniero” ?!?

“ Convivenza, l’illusione della libertà”

Riportiamo brevi stralci dal libro “Felici e sposati, Coppia, Convivenza,
matrimonio” di Tony Anatrella, sacerdote francese, psicanalista e saggista.


Le unioni di fatto non sono nuove nella storia, ma è solo recentemente che la coabitazione fuori dal matrimonio si è sviluppata come scelta deliberata.
(…) Ma, di fronte all’aumento dei divorzi, gli animi sono stati invasi da un timore cui fanno eco oggi gli interrogativi di numerosi giovani che esitano ad impegnarsi: la paura di sbagliare persona, di dover‘“rompere” un giorno e di vivere un fallimento affettivo rende i partner esitanti davanti al matrimonio. (…)

LA LEGGE FA PAURA
I conviventi sono in una posizione del tutto ambivalente: non domandano nulla alla società e rifiutano qualsiasi impegno nei suoi confronti.
Eppure, desiderano vedersi concedere gli stessi diritti delle persone sposate, a dispetto delle ricadute sul tessuto sociale. Invece di privilegiare il senso dell’impegno, che dovrebbe essere il solo tenuto in considerazione dalla società, il legislatore legifera in nome dei sentimenti: ciò sembra aleatorio e troppo fragile per assicurare la coerenza del tessuto sociale.
In un tal clima, non stupisce di veder emergere le più svariate richieste di riconoscimento di “unioni” che poggiano sui soli sentimenti esistenti tra due persone.
(…) Riducendo il matrimonio al semplice rango di un contratto tra gli altri, ciò che non è, il legislatore livella tutte le situazioni. Ora, se tutte le situazioni si equivalgono, niente più ha valore. Nessuno è obbligato a sposarsi e spetta a ciascuno organizzarsi l’esistenza a piacere. Ma come si può far credere che psicologicamente e socialmente il matrimonio e la convivenza abbiano lo stesso valore? Una società nella quale l’idea dell’impegno è regresso, è malata.
Non dobbiamo aver paura dei “paroloni”: ci vogliono uomini e donne che si sposano e durano insieme per assicurare la speranza e la continuità del tessuto sociale. Quando un uomo e una donna si sposano, donano gioia e portano vita intorno a sé. Dobbiamo avere l’onestà di ammettere che l’annuncio di una convivenza o di un‘pacs non provoca lo stesso effetto.

UN AMORE PIÙ AUTENTICO?
Cosa sta succedendo oggi? La convivenza tende a rimpiazzare in parte il fidanzamento di una volta. I partner vanno a vivere insieme nella speranza di un impegno definitivo; altri invece si stabilizzano nella convivenza per restare liberi di fronte alla società.
Hanno l’impressione che la relazione fondata unicamente sui sentimenti sarà più autentica del matrimonio. Strana ipotesi…
(…) In realtà, la convivenza svolge molto spesso un ruolo illusorio nella relazione. Il fatto di non prendere un impegno pubblico permette di evitare di porsi alcune domande sulla natura dei propri sentimenti o sulla propria storia personale, sul moltiplicarsi di simili avventure infeconde, su cosa ne sia delle immagini parentali di ciascun partner, sulla propria sessualità, sulle proprie inibizioni e rimozioni, sulla propria educazione, sui valori di vita da concretizzare insieme; in breve, sul senso che l’altro rappresenta per sé e su ciò che si desidera costruire e finalizzare
insieme. Una relazione che non presuppone un impegno nel tempo di fronte alla società non è, in sé, più autentica di quella vissuta da due persone sposate.
Anzi, è la relazione vissuta nella convivenza che ha molte più possibilità di essere inautentica, nella misura in cui può servire a dissimulare delle verità che non si vogliono sentire. Un giorno, però, la questione dl matrimonio si pone anche nella coppia di conviventi. I partner non possono, infatti, evitare le domande sull’amore che li lega, sul loro impegno reciproco, e infine sulla durata, che è attinente a una relazione autentica. È il momento in cui compare il bambino - in cui cioè un elemento “terzo” adduce la prova e convalida la qualità e l’identità della relazione -. Come il bambino trova la prova dell’amore che i genitori nutrono per lui nell’amore coniugale, gli sposi trovano la dimostrazione del loro amore nell’impegno matrimoniale: “La prova del mio amore è di chiederti di sposarmi”, possono dirsi. La volontà di sposarsi è la sola prova che si possa dare a se stessi e offrire all’altro: quella di impegnarsi in un progetto comune (…).

UNA SOCIETÀ CHE NON PROTEGGE IL MATRIMONIO
Riconoscendo alle unioni di fatto uno statuto istituzionale simile a quello del matrimonio e della famiglia, la nostra società corre dei‘rischi assurdi.
Nell’ordine dei principi, bisogna lasciare all’intelligenza la distinzione tra interesse pubblico e interesse privato. Nel caso dell’interesse pubblico, la società e le autorità hanno il dovere di proteggerlo e promuoverlo. Nel caso dell’interesse privato, lo Stato deve limitarsi a garantire la libertà. L’interesse pubblico è di competenza del diritto pubblico, mentre quanto attiene agli interessi privati deve essere lasciato all’ambito privato. Il matrimonio e la famiglia assumono un interesse pubblico, per il fatto che rappresentano la cellula base della società e dello Stato. Come tali, devono essere riconosciuti e protetti.
Eppure, questa non è la direzione assunta dal potere politico. La famiglia, cellula base della società, rischia di essere, giuridicamente parlando, un guscio vuoto(…). Non è che una qualunque unione possa diventare una famiglia: il fatto che due persone vivano insieme non riveste necessariamente un interesse pubblico.
Nel matrimonio, un uomo e una donna costituiscono tra loro un patto per tutta la vita, ordinato per sua stessa natura al bene degli sposi, alla procreazione dei bambini e alla loro educazione. A differenza delle unioni di fatto, essi si prendono pubblicamente e formalmente degli impegni, e si assumono delle responsabilità di cui potranno anche rispondere davanti a un tribunale. L’instabilità affettiva delle coppie che rompono il legame coniugale e familiare è fonte d’insicurezza e di perdita di fiducia nel seno stesso alla società. Certo, alcuni sostengono che il matrimonio non venga per questo sminuito, ma ciò provoca e proprio indebolimento delle norme. Per la coesione del tessuto sociale, lo Stato ha più interesse a valorizzare il matrimonio rispetto alla convivenza o ai pacs.
* sacerdote francese, psicanalista e saggista

Natale amore di Dio


Il mistero del Natale ci richiama l’enciclica del Pontefice Benedetto XVI: “Dio è amore”. Natale è questa straordinaria rivelazione: Dio assume il volto umano, si china sull’uomo ferito e derubato che giace al margine della strada. È sorprendente che, oggi,ideologie prevaricatrici tentino di dissipare questa verità, arrivando all’apoteosi dell’odio. L’odio tenta di farsi norma di storia e di diritto. Un alunno non cristiano, arriva a pretendere che si cancelli la verità dolcissima del Natale del Signore. L’umanità ha bisogno della verità di Dio che nasce e muore per l’umanità. Se Natale afferma il valore della trascendenza di Dio, afferma pure la grandezza dell’uomo. Natale è amore,è solidarietà. La carità nella vita della Chiesa però non si traduce in semplici forme di assistenza sociale: la carità che offre la Chiesa di Dio è tanto di più.
La carità ha lo scopo di comunicare l’amore di Dio e di renderlo visibile.
Pare si sia infiltrata l’idea che non è necessario credere per vivere la carità: la
società è portata a comunicare carità! Questo è tanto, ma non tutto. In passato la carità era compito esclusivo della Chiesa con una rete di iniziative commoventi. Lo dice la sua storia. Oggi, si vorrebbe che la carità venisse promossa solo in collaborazione con le istituzioni pubbliche. La collaborazione tra lo Stato e la Chiesa è un grande traguardo, ma l’esperienza dice che solo la carità della Chiesa va al cuore dell’uomo. Da lassù nasce la nostra operosità, perché “Dio, è amore”: è Natale.

Nel Mese

Come ogni anno, il 1° novembre, ci portammo in pellegrinaggio a Pompei per deporre ai piedi della Madonna i propositi di bene e di preghiera maturati nel mese di ottobre che ha assunto un tono di tenera devozione e affetto alla Vergine il cui simulacro è presente da 70 anni nella nostra chiesa parrocchiale.
Molto interessanti le riflessioni offerteci dal parroco nella commemorazione dei Defunti; essi sono più vivi che mai perché nella sfera dell’amore di Dio. Non quindi una messa “per” i defunti, ma “con” i defunti perché presenti come Lazzaro al convito eucaristico preparato per Gesù che viene a servirci offrendoci i suoi doni della Parola e del Pane. Come impegno prioritario si sono avuti incontri con genitori e padrini dei ragazzi che il 25 novembre hanno ricevuto la Cresima.
Tra gli altri impegni, quelli della adorazione mensile, della catechesi ai giovani e
giovanissimi ogni lunedì sera e la Convivenza di riporto per le Comunità neo-catecumenali presenti in parrocchia. Il dovuto rilievo è stato poi dato al triduo in preparazione alla festa di Cristo Re, titolare della nostra Comunità e quest’anno c’è stata regalata la presenza del Vescovo don Gino che durante la
Messa pontificale ha amministrato la Cresima a 23 ragazzi di 3^ media.
I giovani hanno voluto animare la festa del titolare della parrocchia con una serata di fraternità, di gioia e condivisione.
Intanto si è tenuto l’incontro con gli adulti di A.C.I., mentre si va intensificando la qualificazione del gruppo dei ministranti e il Coro dei cantori che animano di solito la liturgia: un lavoro silenzioso ma tanto benefico soprattutto a livello formativo ed educativo. Ai giovanissimi si è presentata la recita delle Lodi e dei Vespri,in modo da potersi accostare alla Parola e iniziare al pregare con la recita dei Salmi.
Il 29 novembre si è dato inizio alla novena dell’Immacolata che si concluderà con le solenni Quarantore e la celebrazione del XXV di fondazione del gruppo parrocchiale della Riparazione Eucaristica fondato da Maria Pellegrini,in quell’epoca responsabile cittadina della stessa associazione.

Luca

Per meglio ripartire...

Miei Cari,

mentre si sta avviando il lavoro pastorale, dopo le adeguate riflessioni dettateci dal vescovo nell’ultimo Convegno diocesano, non sono mancati momenti di pausa per supportare con “idee forti” quanto andremo ad attuare con i nostri sforzi e la nostra buona volontà. Se, tra queste idee, la scelta fra visibilità e nascondimento pastorale. Leggevo infatti di un cardinale tedesco che affermava: “in Germania la struttura organizzativa e la potenza della Chiesa è tale che essa potrebbe restare in piedi anche se tra i fedeli non ci fosse più fede”, d’altro canto poi suonano stimolanti le parole di Yves Congar: “la Chiesa illumina e comunica salvezza al mondo solo nell’annientamento quotidiano della sua visibilità terrestre, nell’oscurità della sua unione col Cristo”. Che scegliere per partire con il piede giusto?
Autorizza quel “predicare sui tetti” di Gesù alle “antenne paraboliche”,alla presenza in TV, perfino alla partecipazione di ministri ordinati in reality show…? O a deliranti manifestazioni folcloriche che nulla hanno di retta pietà popolare, con sagre o altro ciarpame illudendoci di annunziare così il regno di Dio? Non è forse da tener sempre presente, da vedere quasi in filigrana il Crocifisso-spettacolo che è contestazione del mondo e delle sue logiche, condanna di ogni durezza di cuore? La tentazione di fare pubblicità serve a piazzare “prodotti”, non a far
crescere la fede.
Nei nostri incontri, miei Cari, è su questo che dobbiamo insistere e convincerci, anche con i nostri ragazzi. Fede è un “camminare sulle acque” non una passeggiata per le sale del potere o le scale dei potenti.
Riscopriremmo così che non si fa il cristiano, ma lo si è, che non si dicono parole sante ma le si vivono e testimoniano con la vita.
In fondo in fondo si tratta di impostare, in quest’anno pastorale, una vita nuova, attinta dalla proposta esemplare che Gesù ci fa. In tal caso sarebbe la nostra vita di Crocefissirisorti ad essere “spettacolo” ed allora “parlerebbero anche le pietre”, fiorirebbe nei nostri cuori il rinnovato entusiasmo e quella gioia che Gesù ci ha promesso.

Buon Cammino…
Don Vincenzo

In margine al mese del Rosario

Il Rosario non si contrappone alla me-ditazione della Parola di dio e alla preghiera liturgica; rappresenta anzi un naturale e ideale complemento, in particolare come preparazione e come ringraziamento alla celebrazione eucaristica. Il Cristo incontrato nel Vangelo e nel Sacramento, lo contempliamo con Maria nei vari momenti della sua vita grazie ai misteri gioiosi, luminosi, dolorosi e gloriosi. Alla scuola della Madre, impariamo così a conformarci al suo divin Figlio e ad annunciarlo con la
nostra stessa vita. Se l’Eucaristia è per il cristiano il centro della giornata, il Rosario contribuisce in modo privilegiato a dilatare la comunione con Cristo, ed educa a vivere tenendo fisso su di Lui lo sguardo del cuore, per irradiare su tutti e su tutto il suo amore misericordioso.

Benedetto XVI

Facciamo un salto nell’aldilà


Ve lo immaginate un San Francesco che grida:”Voglio mandarvi tutti in Paradiso” ?
Questa è la ragione del Perdono di Assisi.
Una provvidenza inattesa e straordinaria al pensiero che qualcuno avrebbe dovuto affrontare il rischio e il pericolo mortale di una crociata per avere l’anima ripulita e pronta per la via del paradiso. Così andavano le cose all’inizio del 1200…

“Tutti in paradiso” gridato oggi non so che effetto avrebbe, certamente un po’ diverso da quello del passato.
Oggi, è ormai risaputo: paradiso, inferno, purgatorio patiscono di un tale grado di incredulità da scomparire dalla coscienza della maggior parte dei cosiddetti cristiani. Ne hanno dato conferma alcuni anni fa i nostri vescovi nel documento “Comunicare il vangelo in un mondo che cambia”: “È offuscato,se non addirittura scomparso nella nostra cultura, l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiastici, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna”. Il problema più serio non è nel linguaggio o nel fatto che queste realtà siano scomparse perché rifiutate o combattute ostinatamente dagli atei o dai miscredenti di una volta che profondevano le loro energie a negare l’esistenza di Dio, finendo poi con il diventare tenaci assertori, perché non si combatte ciò che non esiste.
No, oggi, purtroppo tutto viene lasciato cadere nell’insignificanza o nell’indifferenza
senza battere ciglio: non interessa e per questo non si crede. Parte di responsabilità di questa situazione va attribuita alle predicazioni che tendevano a provocare terrore e tremore: le fiamme dell’inferno, le orme di impronte bruciate dalle anime del purgatorio, il terribile Dies Irae, il giorno del giudizio, reso così bene nel Requiem di Verdi con il possente e inquietante suono delle trombe e dalla fantasia pittorica di Michelangelo nella Sistina, di Signorelli nel duomo di Orvieto…
I teologi di questi ultimi tempi hanno fatto notevoli tentativi per correggere il tiro e suscitare
interesse, presentando un’aldilà meno inquietante e più coinvolgente, un’aldilà come continuità
alle scelte di vita che stiano operando oggi, purificato da ombre tenebrose e illuminato da una giusta luce. Ne danno un saggio i vescovi sempre nel documento sopraccitato, in un passaggio
dedicato alle verità della vita eterna non parlano né di purgatorio né di inferno. Nel primo caso (purgatorio) sviluppano il concetto di purificazione, perché non si tratta di un luogo, ma di uno stato d’essere, che potrebbe concludersi con lo stesso istante dello morte e dell’incontro con Cristo.
Non anni di purgatorio, come si diceva una volta misurando il tempo di Dio con i nostri calendari, del resto dopo la morte non esistono più le categorie del tempo e dello spazio, ma istanti intensi di attesa dell’amore di Dio, con la sofferenza di non aver corrisposto pienamente.
Più anticamera del paradiso con lo stato di attesa (purificazione) che inferno dimezzato, come risultava dalle trame oratorie di predicatori di grido. Anche l’inferno non è luogo, quindi niente fiamme che bruciano. Se si prende familiarità con il linguaggio biblico si ha una comprensione diversa. L’inferno è visto come seconda morte. Esiste non come espressione della punizione e dell’ira di Dio, ma perché l’uomo lo rende tale, perché vuole escludersi totalmente dalla comunicazione con Dio.
Dio e spettatore rispettoso, ma impotente e addolorato, perché la libertà dell’uomo gli ha legato le mani. Nella versione tedesca del catechismo cattolico viene posto questo interrogativo: “Se Dio alla fine accogliesse nel suo regno anche coloro che si sono definitivamente dichiarati contro di lui, verrebbe ancora in tal modo garantita la libertà e quindi la dignità dell’uomo?” . Bella domanda!
Del resto, coloro che si dichiarano definitivamente contro Dio si sono creati quaggiù il loro inferno, perché incapaci di amare e di farsi amare, insensibili al bene e al bello, ripiegati iniquamente su se stessi e la loro egoistica e insaziabile avidità. Tale situazione getta una luce consolante sulle debolezze umane che non sono mai rifiuti cinici e definitivi dell’Amore, ma, appunto, solo fragilità e debolezze. Dunque,l’inferno non come castigo, ma come conseguenza di una libera scelta. Non pene o tormenti inflitti da Dio, ma unicamente il vuoto, l’infelicità, le tenebre senza fine di chi ha rifiutato sempre l’amore misericordioso. In proposito si avverte la necessità e l’urgenza di modificare il linguaggio dell’atto di dolore in cui si continua a recitare di “ aver meritato i castighi” di Dio.
E le fiamme dell’inferno che tanto hanno infuocato la fantasia di generazioni di predicatori e di pittori non provengono forse dal linguaggio biblico? Il fuoco è solo un’immagine e l’immagine non può essere scambiata con la realtà. Una foto mi richiama una persona, un evento, ma in definitiva rimane sempre un pezzo di carta, non è la persona. Con la sua forza immaginifica il fuoco vuole semplicemente significare che anche la creazione esterna collabora, aggravandolo sulla linea della corporeità, allo stato di infelicità totale di colui che si è volutamente escluso dal paradiso , quindi dalla vita, dall’incontro, dalla gioia, dall’amore, in definitiva da Dio che è tutto il bene, il sommo bene, l’unico bene. A questo punto forse qualche lettore si potrà rammaricare perché tale visione delle realtà ultime può indurre ad un lassismo sfrenato, tolta la paura dell’inferno si può fare quello che si vuole, tanto Dio è buono.
Innanzitutto volere una “ giusta” condanna per chi è in errore non fa parte del cuore di Dio e quindi nemmeno per chi vive di Lui: si deve volere il bene degli altri non la condanna. E “poi fare quello che si vuole ” , non toglie nulla a Dio, ma molto alla nostra piena realizzazione, alla nostra felicità, a noi stessi. Insomma non si imbroglia Dio, ma unicamente se stessi. Si potrebbe al più pensare che nella propria vita c’è sempre un angolo riservato a Dio e al momento opportuno ci si può rifugiare per salvarsi…È un ragionamento subdolo e pericoloso. Infatti chi di noi è in grado di sapere quando subentra nella nostra vita al rifiuto o all’essenza di Dio il momento del ritorno a Lui? Il rifiuto può essere una scelta ideologica o aprioristica, a cui può far seguito però una coerenza morale onesta e retta, in tal caso sarà Dio a giudicare. Ma può essere anche un indurimento del cuore provocato da un continuo ripetersi di peccati che rende impossibile il ritorno a Dio. Un cuore di pietra ormai incapace di pulsare e di amare. È il peccato che porta alla “seconda” morte. Non dimentichiamo che la Scrittura abbonda di testi che aprono ad una speranza illimitata e che raccontano dell’infinita misericordia di Dio; la stessa Scrittura ci pone di fronte alla possibilità reale della nostra perdizione. Non scherzare con il fuoco è una prudenza quanto mai opportuna da coltivare.


da il “cavaliere dell’Immacolata”

“ UN PAESE SPAESATO E IN CRISI MORALE ”

Un regno diviso in se stesso è destinato a perire. È un’antica verità, quasi lapalissiana, che potremmo modificare in questi termini, più attuali: una nazione divisa in se stessa, frantumata in mille pezzi, in mille istanze diverse e spesso inconciliabili, è destinata ad indebolirsi.
Oppure, celiando un po’ con i termini,un Paese sfinito è un Paese finito.
All’origine di questo infiacchimento del tessuto sociale c’è una evidente crisi morale. Mons. Bagnasco ha parlato di tendenze disgregatrici: mafie, incendi boschivi, divismo e divertimento nichilista, scarsa attenzione ai problemi delle giovani coppie (il problema della casa), l’assalto all’istituto familiare, preesistente al Cristianesimo, minano le basi della civile convivenza, attentano a quel complesso di valori morali che costituiscono l’ossatura o la spina dorsale di un popolo. L’elenco stilato dal presidente della Cei sarebbe stato oltremodo perfetto se ci fosse stata anche una critica esplicita a certa politica sempre più autoreferenziale, avvinghiata ai suoi privilegi mentre molta parte del Paese soffre, molte famiglie sbarcano il lunario (lo stesso Draghi, il Governatore della Banca d’Italia, ha evidenziato che gli stipendi dei lavoratori italiani sono i più bassi d’Europa, mentre, aggiungo io, le indennità dei nostri parlamentari sono le più alte!), molti giovani sono costretti ad arrangiarsi senza grandi prospettive (di qui il lasciarsi andare ad una sorta di scanzonato nichilismo fatto di discoteche e sballo). L’antipolitica grilliana è un fenomeno che ha radici nella disgregazione del Paese dovuta per buona parte alla arroganza ed alla indifferenza di una classe politica che, fattasi casta, pare abbia quale obiettivo principale la perpetuazione di se stessa piuttosto che il bene comune. Un esempio eclatante è dato dal sistema elettorale. I partiti preparano le liste, ci mettono chi vogliono e fanno eleggere chi vogliono, secondo una preferenza partitica e quindi sottratta al giudizio dell’elettore, che dovrebbe essere sovrano. La cosiddetta Prima Repubblica, almeno sotto questo profilo, era molto più democratica dell’attuale, il cittadino aveva la possibilità di esprimere la propria preferenza. Mentre nuovi (sic!) partiti nascono già divisi in se stessi e all’insegna del cinema e delle chiacchiere, scimmiottando l’America e culture che non ci appartengono, il Paese va alla deriva, le facce sono sempre le stesse, chi sta in politica da trent’anni e passa assurge ad uomo nuovo, gli ideali cedono il passo alla scenografia e a qualche copione da recitare a soggetto. Sulle finzioni e sulle belle parole non si costruisce nulla di solido, non c’è alcun dubbio.
Manca la sostanza. È l’universo valoriale che deve tornare al centro della vita individuale e comunitaria; sono i valori umani, l’onestà, il senso del dovere ed il sacrificio, la responsabilità verso se stessi e gli altri, l’amore per il proprio paese, lo studio, a dover tornare in auge, pena il dissolvimento del vincolo sociale, quelle spinte e controspinte che alla lunga lacereranno il tessuto comune. Fra i privilegi delle varie caste e le piccole furberie del popolo si situa quel territorio di nessuno che diventa terreno di coltura delle varie mafie, tanto più aggressive quanto più l’esempio che giunge dall’alto non è edificante.
I valori non possono essere inculcati con la forza, ma con l’esempio e il processo educativo. Primi responsabili sono quindi le famiglie, i padri e le madri, che spesse volte abdicano alla loro funzione educativa e morale per ridursi a svolgere quella “biologica” di genitori, cioè di datori di cibo e di cose materiali. Poi viene in rilievo la funzione della scuola, che, come rifletteva il Servo di Dio Giovanni Modugno di Bitonto, esimio pedagogo ed educatore, ha bisogno di “educatori colti” che abbiano preparazione pedagogica e non solo scientifica, perché quest’ultima “non basta per insegnare bene e tanto meno è, poi, sufficiente per formare il carattere dei giovani [...].” “Vivere è educarsi, ed educarsi è vivere”, così mi diceva Renato Dell’Andro riecheggiando la lezione del prof. Modugno. Una educazione permanente ai valori è quindi indispensabile per rimettere ordine nella vita personale e sociale. La Chiesa può fare molto in questo senso, purché non abdichi al suo ruolo di coscienza morale e conservi autorevolezza e credibilità, talvolta minata da episodi di singoli individui esecrabili e di estrema gravità. Chi ambisce ad insegnare e ad ammonire, ne sia degno in massimo grado.

Salvatore Bernocco

Nel Mese

Felicemente introdotti nel mese mariano di ottobre in onore della Madonna del Rosario. È stato il nostro Mons. Girasoli, Nunzio Apostolico a dare inizio con la celebrazione solenne e la sua omelia che non poteva non fare riferimenti alla devozione personale e di famiglia alla Vergine di Pompei. Sono riprese intanto le attività pastorali soffermandoci a riflettere sulla lettera Pastorale del Vescovo don Gino e che è stato punto di partenza attraverso il mandato che il parroco ha dato ai catechisti ed operatori pastorali parrocchiali. Anche dal punto di vista liturgico si è dato l’avvio attraverso la rivisitazione del repertorio da parte del
coro della parrocchia e i lettori,compresi quelli appartenenti al Cammino neo-catecumenale hanno partecipato nei giorni 23/25 presso l’Annunziata al Corso che si è tenuto per essi a livello cittadino. Gli incontri a vari livelli, in particolare quelli di catechesi che sono ripresi ogni lunedì sera per i giovani e giovanissimi hanno fatto sì che le scelte prioritarie che il vescovo ha indicato, avessero adeguata attuazione. Fondamentale è stato l’incontro che il parroco ha avuto con i genitori dei ragazzi che il prossimo 25 novembre riceveranno il sacramento della cresima. L’adorazione mensile comunitaria e la catechesi per il Gruppo Famiglia hanno dato compimento al lavoro svolto nel mese. Ottima la riuscita della Giornata Missionaria aanche attraverso la pesca a favore delle missioni che i giovani hanno -come ogni anno- promossa tra i componenti della Comunità.

Luca

Riflettiamo insieme

Siamo al cuore dell’autunno: gli alberi si spogliano delle foglie, le nebbie mattutine indugiano a dissolversi, il giorno si accorcia e la luce perde la sua intensità. Eppure ci sono lembi di terra, i cimiteri, che paiono prati primaverili in fiore, animati nella penombra da un crepitare di lucciole. Sono stati celti a collocare in questo tempo dell’anno la memoria dei morti,memoria che la chiesa poi ha cristianizzato, rendendola una delle ricorrenze più vissute e partecipate.
Nell’accogliere questa memoria,questa risposta umana alla “grande domanda” posta a ogni uomo, la chiesa l’ha proiettata nella luce della fede pasquale che canta la resurrezione di Gesù Cristo da morte,e per questo ha voluto farla precedere dalla festa di tutti i santi, quasi a indicare che i santi trascinano con se i morti, li prendono per mano. Ed è al tramonto della festa di tutti i santi che i cristiani non solo ricordano i morti, ma si recano al cimitero per visitarli,come a incontrarli e a manifestare l’affetto coprendo di fiori le loro tombe: un’affetto che in questa circostanza diventa capace di assumere il male che si è potuto leggere nella vita dei
propri cari. Per molti di noi là sotto terra ci sono le nostre radici, il padre,la madre quanti ci hanno preceduti e ci hanno trasmesso la vita, la fede cristiana e quell’eredità culturale, quel tessuto di valori su cui, pur tra molte contraddizioni, cerchiamo di fondare il nostro vivere quotidiano. Questa memoria dei morti è per i cristiani una grande celebrazione della resurrezione: quello che è stato confessato, creduto e cantato nella celebrazione delle singole esequie, viene riproposto qui, in un unico giorno, per tutti i morti. La morte non è più l’ultima realtà per gli uomini, e quanti sono già morti,andando verso Cristo non sono da lui respinti ma vengono risuscitati per la vita eterna,la vita per sempre con lui, il Risorto vivente.

Enzo Bianchi

"Il Signore ha bisogno di me"

Miei Cari,

mentre stiamo per riprendere il lavoro del nuovo anno pastorale che si apre dinanzi a noi, con le coordinate che il vescovo don Gino ha tracciato nel recente Convegno diocesano, senza alcuna presunzione ma con tanta fede in Gesù riprendiamo il cammino.
Non v’è dubbio che ogni qualvolta c’è da ricominciare viene di chiedersi: “Ma chi sono io, proprio a me, non mi sento capace?” Anch’io dopo tanti anni mi pongo questo interrogativo. Ma, a risolverlo mi sono imbattuto in un racconto che volentieri trascrivo anche per voi, soprattutto per coloro che sono a me più vicini nell’avviare e nel portare a realizzazione il progetto pastorale diocesano. “Il Signore ha bisogno di me”. È una biblista cinese Maria Ko Ha Fong che ha scritto questo originale racconto che ci dà spunto e ci rincuora nella ripresa. Trascrivo uno stralcio così com’è.
È un asinello che parla.
“In questi giorni sono particolarmente inquieto. Si avvicina la festa di Pasqua. La strada verso Gerusalemme è affollata, quasi caotica. Io sto, come al solito, legato, davanti alla porta. Guardo con un po’ di invidia i cavalli che portano gente ben vestita. Anche i miei compagni asini hanno un’aria di fierezza e di soddisfazione in questi giorni.
Oh, come mi piacerebbe essere nella carovana e andare alla città santa! Cosa non pagherei ad essere slegato… È possibile che in mezzo a quella folla nessuno si accorge di me? Voglio vivere, voglio lavorare, voglio essere qualcuno, voglio essere utile…
Mentre mi sforzo di trattenere le lacrime scorgo vicino a me due uomini mai visti da
queste parti. Dopo avermi esaminato dalla testa alla coda per assicurarsi che non hanno sbagliato, incominciano a slegarmi.
In quel momento esce di casa il mio padrone e chiede ai due stranieri: “Perché slegate questo asinello?”. Essi rispondono; “Il Signore ne ha bisogno”. Il padrone li lascia fare, tanto per lui io non valgo niente.
Io invece, sono rimasto pieno di dubbi e di stupore. Il Signore ha bisogno di me? Ma chi è “il Signore”? Chi può aver bisogno di me, stupido asinello, per di più giovane, inesperto? Come fa a conoscermi? Come mai vuole proprio me?
Non mi rendo conto di quanta strada ho fatto con i due uomini, tanto sono sconvolto e smarrito. Ad un tratto, alzando la testa, trovo davanti a me un volto bellissimo, con uno sguardo mite e buono. Sarà questo “il Signore”, l’uomo che ha bisogno di me?
Avrei voluto guardarlo a lungo per scoprire su quel volto la risposta ai miei tanti interrogativi, per imprimermi nella mente quello sguardo buono e incoraggiante, ma la gente mi spinge da tutte le parti creando grande confusione. Egli sale lentamente su di me e subito gli uomini mi fanno cenno di camminare.
Che emozione! Per la prima volta in vita mia porto su di me un uomo. Si accorgerà il mio Signore? È così bello! Mi sento realizzato, utile. Saprà il Signore su di me quanta gioia mi ha dato? Dove andiamo? A Gerusalemme. Vedo già spuntare le torri della città; vedo le mura maestose e dappertutto tanta gente. Però, che stranezza. La gente invece di camminare verso la città viene verso di noi. Ci viene addosso. Man mano che avanziamo con fatica la gente stende i mantelli per terra componendo un tappeto variopinto. I bambini agitano rami d’albero. Le donne si inginocchiano. Tutti
gridano a gran voce: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna al re
d’Israele!”.
Non potevo immaginare neanche lontanamente uno spettacolo simile. Tutta questa gente è venuta ad accogliere l’uomo seduto su di me e lo chiama re d’Israele.
Re d’Israele? Sì, proprio così. Allora è il Messia! Sono davvero un asino per non averlo capito prima. La profezia di Zaccaria mi balena nella mente: “Ecco il tuo re viene a te, giusto, vittorioso, umile, cavalca un asino”. Ma se egli è il Messia, io …io sono quell’asino! Sono totalmente confuso!
Cosa è capitato poi al Messia, mio Signore? Non ho bisogno di raccontarvi. Lo sapete già dai libri scritti dai suoi discepoli. Quanto a me non so che dire. Le parole si rivelano povere e inadeguate quando si è in contatto con il mistero.
Vedendo il mio Signore inghiottito dalla folla alla porta del tempio, ho capito che non lo avrei più rivisto. Egli non avrà più bisogno di me per il viaggio di ritorno. Quel mio famoso antenato, l’asino di Abramo, ebbe la gioia di riportare a casa Isacco; io, invece, non lo riporterò indietro il mio Signore. Dio ha risparmiato il figlio di Abramo ma non risparmia il proprio figlio.
Pochi minuti fa ho portato su di me il mio Signore, d’ora in poi lo porterò dentro di me, per sempre. Egli ha avuto bisogno di me per andare a Gerusalemme, ora HA ANCORA BISOGNO DI ME perché io gli renda testimonianza da Gerusalemme fino agli estremi confini della terra (cf At 1,8). È per questo che esisto. Egli mi conosceva e mi amava prima che io nascessi. Fin dall’eternità mi ha pensato e mi ha assegnato un posto nella storia. Ha fatto preannunciare dai profeti la mia missione. Ha guardato alla mia povertà e nullità. Mi ha fatto slegare e mi ha fatto condurre a sé per realizzare insieme a Lui una promessa. Mi ha fatto diventare portatore del suo Figlio, suo collaboratore per salvare il mondo.
Se Dio ha avuto bisogno di uno stupido asino, quanto più ha bisogno di voi, o uomini
intelligenti, che ascoltate la mia storia!”

Cos’altro si può aggiungere? Buon lavoro e avanti tutta.

Cordialmente, Don Vincenzo

LA RELAZIONALITA’: VIA DELLA SPERANZA

Dopo l’interiorità, mons. Martella inaugura la seconda tappa del progetto “Con Cristo sui sentieri della speranza” dedicata alla relazionalità

Trentanove pagine dedicate ai giovani, “a quelli vicini e a quelli lontani”. Il nostro Vescovo dedica la sua lettera pastorale “La relazionalità: via della speranza” proprio a loro, ai più giovani, con i quali vuole costruire “un cammino di speranza, attraverso la qualità delle relazioni umane ispirate alla fede e alla testimonianza cristiana”. I giovani hanno dalla loro parte l’età, la gioventù, ma sono i più esposti ai colpi sordidi di questa civiltà pansessualizzante e portata al consumo di ogni cosa e di ogni sentimento. Gli stessi rapporti umani sono diventati un tanto distanti e distaccati, e non tragga in inganno l’estrema facilità con cui oggi ci si può scambiare in tempo reale messaggi attraverso l’uso di Internet o del cellulare.
A tale facilità non corrisponde un’altrettanta qualità delle relazioni, né una vittoria sulla solitudine. Lo sostiene mons. Martella quando scrive che “il mondo sembra un insieme enorme di solitudini. [...] nell’epoca dei mezzi di comunicazione, sempre più sofisticati ed innovativi, aumentano le solitudini, perché aumenta il deficit di comunicazione.” La speranza non può affermarsi in un mondo che comunica in questo modo poco comunicante, che galleggia su messaggi tipo spot pubblicitari, che si affida ai sensi piuttosto che al senso del cuore, ad una speranza che sia in grado di liberare e liberando di creare relazioni vere, durature e per ciò significative. I sensi sono sessualizzati, ed il cuore ne porta le ferite, trascinandosi stancamente da una delusione ad una nuova illusione. La speranza cristiana, che è una speranza di felicità attuale nel Cristo dei vangeli, è obnubilata nonostante essa sia comunicazione e relazione al massimo grado. Tuttavia, anche la comunità cristiana non è immune da crisi di speranza, una sorta di riverbero opaco che su di essa si riflette del più grave e diffuso male del secolo, il cancro dell’anima, l’eclissi totale della speranza, la depressione.
Anche la comunità dei credenti crede meno, forse, ed in questo deficit di fede si annida l’incapacità di andare oltre gli stereotipi e certo ritualismo che sa di muffa, di comunicare un Dio che è vivo e che agisce nella storia, a fianco di ogni uomo di buona volontà, per finalità di bene e di speranza.
Ogni relazione deve aprirsi all’amore di Dio.
Ogni relazione presuppone una capacità di comunicare profondamente, da essenza ad essenza. Ogni relazione deve creare più relazione ed ampliare i nostri orizzonti, spostandoli in avanti, in direzione delle nuove terre e dei cieli nuovi isaitici. Proprio perché Dio è un esempio unico di relazione, è Uno e Trino nel contempo, e proprio in ragione del fatto che egli si comunica all’umanità attraverso il suo spirito, il cristiano dovrebbe essere avvantaggiato nell’opera di comunicare la speranza che non muore, uno specialista nell’arte di comunicare la speranza e l’amore.
Non sempre è così, alcune volte a causa dei contenuti che non ci sono, altre volte perché difetta la capacità di comunicare il vero, altre volte ancora perché manca il buon esempio, che da solo varrebbe cento prediche.
Mons. Martella scrive che “il cristianesimo non è un lasciare, ma un trovare. Non è la religione del no, è la religione del sì, come ripetutamente ci ricorda Benedetto XVI.” Bene, è da questa asserzione che occorre prendere le mosse per risuscitare la speranza cristiana e generare frutti copiosi di buone relazioni. La religione del sì, la fede nel sì definitivo e fedele del Signore, il quale non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. La religione della felicità, perché sia chiaro una volta per tutte che il Signore non è un dispensatore di croci e sofferenze, ma di benedizioni, non è un dio pagano, geloso della felicità delle sue creature, ma un Dio che la promuove e che si prende cura dei suoi figli. Se si riuscisse a comunicare questa importante novità, a riportarla alla luce, scrostandola da anni di verbosità e tarli, ritualismi insignificanti, paure immotivate, inferni dispensati a man bassa per presunti peccati, beh, allora la speranza cristiana splenderebbe nel
mondo e la relazione con noi stessi, con Dio e con gli altri non avrebbe più bisogno di interessanti teorizzazioni e di tecniche. Basterebbe l’incontro, di tanto in tanto, con un cristiano felice di esserlo.

Il Maestro Michele Cantatore

5 Ottobre: Ricordando
il M ° Michele Cantatore
“mistica in canto”
nel 2° Anniversario della sua pia morte




A due anni dalla scomparsa del Maestro Michele Cantatore, è lecito e doveroso continuare a riflettere sul suo servizio pastorale offerto con dedizione e abnegazione alla comunità cristiana di Ruvo di Puglia, attraverso una particolare concezione della musica e del canto.
Vorrei parlare del suo pensiero musicale ribadendo un concetto più volte ripetuto: il Maestro è stato ciò che ha cantato, composto, suonato – cioè ha fuso magnificamente la musica alla vita, la vita all’arte. Questa caratteristica di fusione tra vita ed arte, tra vita e musica, e potremmo dire anche tra parola e suono, non è tuttavia una peculiarità del Maestro, o quanto meno non è nuova nella storia della musica. Infatti, immaginando per un attimo di spostarci in un’altra epoca, il Medioevo, è facile trovare una concezione di vita molto simile alla sua: nel Medioevo ( e in particolare il Medioevo inteso fino a circa il IX sec. d.C.), la musica e il suo insegnamento occuparono un ruolo centrale nella vita quotidiana, nell’educazione e soprattutto nel culto e nella pratica religiosa, nonché nella catechesi. Nel Medioevo il musicus, riprendendo un’idea del filosofo Platone, non era colui che sapeva cantare o suonare, ma colui che sapeva accordare, anche in senso musicale, l’arte che praticava alla vita che conduceva, in un connubio inscindibile. La musica non era una professione, ma era la vita stessa: mi pare che il Maestro abbia avuto, senza dubbio, questa particolare caratteristica.
Inoltre in questo periodo, la musica era “la prima fra le arti”, agli antipodi della odierna concezione, per cui nella vita moderna la musica, spesso anche quella sacra, e relegata nell’ambito del “divertimento”, del “consumo” e del “commercio”, cosa ben lontana dalla funzione didattica e ascetica che la musica ricoprì nel Medioevo in Occidente, e ancora oggi diffusamente in Oriente. In breve, il Maestro, forte della fusione tra musica e vita, di cui si parlava prima, scriveva con intento didatticocatechetico: la musica era da lui reputata strumento privilegiato per avvicinarsi a Dio, alla Verità trascendente, e mai per esporre il suo pensiero individuale e la sua bravura artistica. Questi principi ci permettono di comprendere la sua precisa scelta stilistica ed estetica; non ci fanno cadere nella tentazione di sottovalutare la reale portata del suo operato; inoltre ci offrono la possibilità di individuare alcuni “modelli” musicali a cui il Maestro si è evidentemente ispirato.
In primo luogo emerge l’adesione quasi passionale ed incondizionata al canto cristiano medievale(quello che comunemente ma impropriamente viene chiamato gregoriano) monodico, cioè ad una voce senza accompagnamento strumentale, fino alle prime forme di polifonia scritta databili tra X e XI sec., che caratterizzano il suo ormai inconfondibile “stile pre-polifonico” Poiché il Maestro Cantatore è stato in primis un profondo studioso e conoscitore delle tecniche compositive e della prassi esecutiva del canto cristiano, egli ha fatto suo questo splendido repertorio, attingendo ad esso come ad una vera fonte di ispirazione prima di tutto spirituale e poi musicale. Secondo il pensiero dei Padri della Chiesa, e in particolare di Agostino, il canto dei primi cristiani era ritenuto ispirato dallo Spirito Santo, sia per quanto riguarda il testo che per quanto riguarda la melodia. Il canto costituisce l’unica lode innalzabile alla divinità; nel quale la Parola ispirata si accorda allo spiritus, al fiato emerso dalla voce umana, alludendo alle “nozze mistiche” tra Spirito (Pneuma) e Anima (Psiche). Ecco la fusione tra parola e suono di cui è degno rappresentante fuori epoca, Michele Cantatore. La musica, allora, per i primi cristiani non era per nulla considerata un elemento accessorio, volto a conferire solennità alla liturgia, bensì come parte integrante del rito: e in questo notiamo una straordinaria somiglianza con la concezione che ha avuto della musica il Maestro: la consonanza dei suoni e dei ritmi verbali simboleggia e prepara realmente l’unione tra Spirito (divino) e Anima (umana). Possiamo quindi cogliere uno degli aspetti fondamentali dell’opera del Maestro: recuperare il senso originario ed originale del canto liturgico, non come ornamento del culto o come arte in sé, ma nel suo profondo valore mistico: il canto manifesta la “presenza sonora” di Dio; la parola sonora come simbolo dello Spirito divino, ponte teso tra l’Umano (finito e mortale) e il Divino (infinito ed immortale). Ecco allora che il canto liturgico cristiano nella sua natura profonda non è musica, ma è preghiera, e come tale, vuole essere eseguito come espressione di fede orante. Il fine di questa musica non è l’intrattenimento sociale e la gratificazione emotiva bensì un’esperienza di fede
vissuta. Perciò al cantore Michele Cantatore richiede in primo luogo la capacità di pregare in adorazione e nel silenzio interiore, nella dimenticanza del puro evento musicale. La preghiera liturgica cantata trova la sua sincerità non nel fatto che si canta ciò che si pensa, ma nel fatto che si cerca di pensare ciò che si canta: e il
Maestro evidentemente, ha realizzato questo principio in modo esemplare.
Un altro aspetto riconoscibile nell’opera di cantatore è, al pari del mondo gregoriano, la completa assenza di ogni forma di protagonismo mondano. Nell’atto compositivo egli si è ispirato spesso a materiale già presente nel repertorio sacro (formule melodiche, formule musicali, tecniche compositive, ecc.) e ha rispettato con venerazione lo stile dei singoli brani, così come facevano i compositori del canto cristiano (ancora oggi rimasti del tutto anonimo). Forse anche per questo egli non ha mai voluto pubblicare le sue opere, rimanendo in una forma di anonimato e di intimismo molto personali. Non ci si deve meravigliare, perciò, nel constatare che l’inventiva personale, caratterizzante le sue melodie, non si sia sbizzarrita nel trovare cose sempre nuove ed originali. Ecco perché alcune sue composizioni possono sembrare banali e scontate. Invece, secondo una mentalità tipicamente “gregoriana”, il vero Maestro è colui che sa coniugare la propria esperienza personale con gli
schemi tramandati dal passato.
Dicevo all’inizio che l’ambito storico di riferimento di Cantatore può essere collocato grossomodo fino al X - XI secolo, periodo in cui comincia a diffondersi la scrittura musicale sul rigo. L’invenzione del rigo musicale porterà, in breve, allo sviluppo della polifonia scritta che, man mano, diventerà sempre più complessa. Al canto cristiano i compositori faranno sempre riferimento, ma per costruire imponenti architetture musicali, con tante voci, riservate ad esecutori molto preparati. Questo tipo di musica sacra aveva come luogo esclusivo di esecuzione le grandi basiliche, le cappelle principesche, le corti, ecc. E’ chiaro quindi che, in questi contesti, la funzione della musica sacra è cambiata: non più esperienza di fede vissuta,preghiera in musica, ma sfoggio di erudizione, di competenza tecnica: una composizione era tanto più apprezzata quanto più era complessa. Inoltre era finito l’anonimato: il nome del compositore dove comparire sulla parte musicale insieme al nome del vescovo o del principe presso cui operava.
E’ evidente che egli a questo tipo di musica e di contesto sociale, non ha volutamente aderito, cercando invece di recuperare l’idea originaria di musica sacra suddetta, di qui anche l’uso del Luca Campanale termine “stile pre-polifonico”. Pur conoscendo le grandi forme polifoniche della musica sacra d’arte e lo stile di questi autori, egli ha composto invece secondo una corrente di pensiero musicale che potremmo definire popolare, meno artefatta, più vicina al sentimento religioso della gente umile e della semplice devozione popolare, sempre secondo il suo intento didattico-catechetico. Nei suoi brani infatti egli ha utilizzato tutte quelle forme musicali - come la Messa Cantilena, il Conductus polifonico, la Sacra Canzonetta, la Lauda, l’Oratorio tardo-cinquecentesco, il Corale - che all’inizio erano nate con l’intendo di ritornare a quella fusione originaria tra parola e suono, tra Spirito e anima, di cui si è parlato, e nelle quali la musica serviva ad amplificare la preghiera, per cui il testo sacro veniva sopportato da una musica appropriata per renderlo più comprensibile e favorire la preghiera e la contemplazione. Si tratta di forme musicali semplici nel loro originario pensiero compositivo - ma che poi i grandi compositori le hanno utilizzate per creare dei complessi capolavori d’arte sacra – nelle quali la polifonia presente è molto semplice: la voce superiore è sempre un po’ predominante, mentre le altre voci la sostengono, cantando in parallelo o con movimenti contrappuntistici ridotti al minimo. E’ chiaro che l’idea estetica alla base di questi brani non è quella di creare un’opera d’arte eseguibile da pochi addetti ai lavori e in modo da lasciare sbalorditi gli ascoltatori; ma al contrario, in questi brani c’è posto per tutti, chiunque potrebbe cantarli, perché le melodie sono costruite in modo tale da favorirne l’apprendimento anche di chi non conosce la musica, ma che ha voglia di pregare cantando.
E’ questa l’estetica sui generis di Michele Cantatore: comporre per far cantare tutti, non per puro diletto, ma per pregare. E sappiamo bene quanto egli ci tenesse a far cantare l’assemblea durante la celebrazione della Messa, ad esempio. Ecco allora l’utilizzo di tutte quelle forme che erano nate con questi ideali, ma che durante la storia della musica hanno cambiato funzione e concezione, e il conseguente recupero da parte sua in un’ottica devozionale, con finalità didattico-catechetiche: il canto come manifestazione della presenza divina; la musica come invito alla preghiera e alla contemplazione collettiva.

Luca Campanale

Nel Mese

Si è dato inizio ad alcuni incontri informali per l’impostazione del lavoro pastorale del prossimo anno. Il tutto poi è stato varato tenendo presente le linee pastorali offerteci dal vescovo don Gino durante il Convegno diocesano che ha registrato la presenza di un folto gruppo di nostri animatori,catechisti e membri del Cammino Neocatecumenale.
A costoro il parroco ha consegnato la lettera pastorale del vescovo perché si possa riflettere su quanto ci è stato proposto e attuarlo di conseguenza. Una partecipazione numerosa si è registrata per il triduo e la festa di S. Pio, preceduta dalla veglia con l’adorazione, la recita del rosario,la Messa vigiliare. Il 23 settembre ha presieduto fra’ Stefano Dal Maschio: c’è stato anche un momento di festa esterna. L’adorazione mensile si è tenuta come sempre, animata dal gruppo della Riparazione Eucaristica che si appresta nel prossimo novembre a celebrare il suo XXV di fondazione.
Come ogni anno poi, il Volontariato Vincenziano ha curato la festa di S.Vincenzo de Paoli e la Gioventù Mariana ha eseguito canti scelti e la messa della “S. Famiglia” del M° M. Cantatore. Il 29 è stato poi ricordato il defunto don Michele, mentre il parroco ha partecipato nella Basilica di S. Pietro in Vaticano alla Consacrazione Episcopale di Mons. Tommaso Caputo, Nunzio Apostolico in Malta e Libia e amico della nostra comunità.

Luca

Non presa di "possesso" ma di "SERVIZIO"


Miei Cari,
i momenti di riflessione della pausa estiva mi hanno orientato a fare il punto sugli ormai ventiquattro anni trascorsi con voi da quando il mai dimenticato don Tonino mi affidava questa Comunità. Né mai ho dimenticato le esortazioni di quel giorno quando lo stesso Don Tonino, durante la celebrazione di inizio mi diceva che non si trattava di “una presa di possesso, ma di servizio”.
Iniziando questo anno 25° di parrocato - per bontà dei superiori, trascorsi tutti in mezzo a voi- si affollano nella mia mente tanti pensieri,esortazioni, consigli ricevuti da persone care e comunque desiderose di un rinnovamento della nostra parrocchia guidata in precedenza per 48 anni dal vecchio parroco. Avvertii subito il desiderio di entrare in contatto con la gente che sentivo mia. È stato bello scoprire anno dopo anno le persone per cui già mi ero andato preparando in qualche modo.
Diventare parroco oggi è un po’ una follia… Ma sono le follie di Dio. Lui mette le sue cose in mano a noi che siamo fragili, deboli,peccatori, perché risalti l’opera sua e ci dia sempre il dono della commozione davanti alla gente (invece di innervosire quando si è continuamente assillati e non c’è un momento di calma…)
Ho sperimentato che per un parroco la cosa più bella è incontrare la gente ed essere per loro un segno di qualcosa che va oltre, che fa pensare a Dio.
La prima cosa di cui mi sono reso conto: aiutare la gente a fare delle domande più profonde, suscitare degli incontri più veri.
Paradossalmente si può vivere in parrocchia “come se Gesù non esistesse”; ci sono tanti incontri occasionali, richieste di servizi, ma non c’è una richiesta che va “oltre”. Sto capendo che bisogna non lasciarsi sfuggire le occasioni degli incontri con la gente per dire Gesù oggi, perché non diventino occasioni mancate. La prima attenzione per un parroco: l’accoglienza dell’altro per instaurare in parrocchia una discussione familiare che diventi evangelizzazione e ci si senta come in una famiglia. Al presente ho avvertito di curare due campi in particolare, dopo la Visita Pastorale di dicembre: i genitori dei bambini del catechismo e i percorsi di preparazione al matrimonio(non che l’Azione Cattolica o il Cammino Neo-Catecumenale o altri Gruppi e Associazioni esistenti in parrocchia siano al secondo posto).
Questi 24 anni trascorsi insieme mi hanno sempre più convinto che bisogna proporre sempre con più insistenza ai genitori di seguire la catechesi parallelamente ai figli tenendo per essi un incontro settimanale e invitandoli a confrontarsi a casa con i bambini.
L’esperienza con i fidanzati: arrivano prevenuti. Prima ancora di parlare del matrimonio, si è cercato di presentare loro Gesù e dare maggior spazio possibile all’incontro con Lui. Non un corso ma un percorso facendo condivisione sulla Parola di Dio. Si sta così arrivando alla formazione di altri gruppi famiglia e non si insisterà abbastanza con incontri periodici, un ritiro a metà anno e a relazioni di amicizia. Tenteremo in quest’anno di realizzare “l’adozione a vicinanza”: a ogni coppia di fidanzati abbineremo una coppia di giovani sposi che si impegnano a pregare per loro. A fine del corso faremo conoscere la coppia adottante per dire che “non siete soli, ci sono sposi che pensano a voi, vi sono vicini”.
Tutto affideremo nella preghiera al Signore. Non legare a noi le persone, ma a Lui.
Tutto riconduce a Lui, perché Lui solo deve crescere in noi e nella nostra comunità che deve “servire” quanti si mettono alla ricerca.
L’auspicio che questo 25° anno del nostro camminare insieme ci porti all’attuazione piena dei voti emersi dalla Visita Pastorale dello scorso anno e ci convinca sempre più che siamo stati chiamati -parroco e fedeli- ad una “presa di servizio” e che, per dirla ancora con Don Tonino, “chi non vive per servire, non serve per vivere”.
È quanto ho sentito di dirvi all’inizio del nuovo anno pastorale.

Cordialmente, Don Vincenzo

Anche dalla Comunità del Redentore hanno partecipato:

E 100 mila neocatecumenali restano per il leader Kiko
A Loreto un pellegrino su 5 arriva dal‘“Cammino”.
Oggi sul palco salirà il loro fondatore


Chissà se l’avrebbe mai immaginato quando all’inizio degli anni Sessanta, giovane pittore diplomato alla Reale Accademia San Fernando di Madrid, andò in crisi fino a non sapere che fare, “il mondo aveva per me il sapore della cenere, dentro di me mi dicevo ogni mattina: perché vivere? Per dipingere? E perché dipingere?"
Nel frattempo Francisco “Kiko” Argüello ha trovato la sua strada. Non ha l’aria ieratica, nelle rare apparizioni pubbliche mostra la faccia normale, barba rada e capelli ingrigiti, di un uomo che tutto sommato porta bene i suoi sessantotto anni. Solo che alle tre di questo pomeriggio salirà sullo stesso palco dal quale Benedetto XVI ha parlato ai ragazzi e si rivolgerà ai “suoi” giovani, gli oltre centomila neocatecumenali che da mercoledì hanno invaso le diocesi delle Marche e dintorni in attesa di incontrare il Papa e, l’indomani, il fondatore del “Cammino” nella piana di Montorso.
È senz’altro vero ciò che diceva il vescovo Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, a proposito dei ragazzi di Loreto, “questi non sono giovani prefabbricati, non arrivano intruppati, in numero di adesioni individuali via internet è altissimo”. Ma c’è poco da fare, a Loreto i neocatecumenali sbucavano euforici da tutte le parti, annunciati da nacchere e tamburelli, canti e danze. Tra qualche sorriso, “e ti pareva, eccoli!”. Chi non li ama dice che fanno troppo chiasso, anche se in verità non è che gli altri, fra chitarre e bonghi, fossero più discreti. Però non c’era gara: centomila su mezzo milione, uno su cinque.
In tutt’altro contesto, al Family Day di maggio, era accaduto lo stesso: un milione di manifestanti e, tra questi, duecentomila seguaci del “Cammino” di Kiko. Del tutto impermeabili, come il loro fondatore, a ciò che si dice da decenni: (…). L’essenziale, dicono, è la “riscoperta del battesimo”, un itinerario che riprende formazione e prassi dei primi cristiani.
Si ricomincia da capo, e a quanto pare funziona: (…), il Cammino si è diffuso in 9900 diocesi nel mondo e conta seimila parrocchie, tremila preti e cinquemila religiose, 63 seminari e dalle venti alle venticinquemila comunità “di 30-60 persone”: solo in Italia sono cinquemila, almeno duecentocinquantamila fedeli più i loro (numerosi) figli. Niente male come esito della crisi di quel pittore ventenne che un bel momento, nel 1964, decise di andare a vivere tra i baraccati di Palomeras Altas, a Madrid, per “fare comunità come la Sacra Famiglia di Nazareth” ed “annunciare il Vangelo”. Fu lì, narrano le biografie, che incontrò Carmen Hernández e con lei pose le basi di quello che sarebbe diventato il “Cammino”, nel ’68 stavano già nel Borghetto Latino di Roma (…). Risale al 29 giugno 2002 “l’approvazione “ad experimentum” per cinque anni dei famosi “Statuti”. E ormai la fase sperimentale è scaduta. Loro aspettano fiduciosi: fondatore e co-fondatrice, oggi pomeriggio, saranno sul palco assieme a padre Mario Pezzi, l’“équipe” che guida i neocatecumenali. “Ogni volta, dalla Gmg dell’89, facciamo seguire all’incontro con il Papa una “giornata delle vocazioni” per raccoglierne i frutti”, spiega Giuseppe Gennarini.
“La novità, semmai, è che stavolta ci hanno lasciato il palco”.

(Dal Corriere della Sera del 3 Settembre)
Gian Guido Vecchi

Continuare a scommettere sulla parrocchia

Quale spazio hanno i giovani in parrocchia? Sono, e si sentono, valorizzati? La parrocchia è solo un’agenzia di servizi, o luogo dove si cresce nel senso di appartenenza e di missionarietà?

In una società consumistica,all’interno di una diffusa frammentazione esistenziale e in un contesto in cui sono comunque vivi i segni della tradizione, il dato religioso non viene generalmente rifiutato. Va però collocato nella serie dei prodotti, tra i generi di consumo, dei quali, a tempo e luogo, si può approfittare. E la comunità cristiana, nelle sue varie determinazioni, diventa agenzia di consumo, supermarket per diversi clienti. C’è chi si rivolge alla parrocchia nelle scadenze della vita: battesimo, prima comunione, cresima,matrimonio, funerale… Ad ogni tappa della vita il gettone corrispondente, per poi vedersi alla successiva puntata. È il tipo di relazione che può essere definito di “toccata e fuga”.

C’è chi si rivolge alla parrocchia e ai suoi riti per vivere una sorta di full immersion nella memoria storica che trova appunto nelle celebrazioni tradizionali -feste, processioni…- le sue manifestazioni tipiche.
C’è chi si rivolge alla parrocchia per trovare risposta al bisogno individuale di “sacro”, senza che tale risposta incida sulla sua vita sociale e comunitaria.
C’è anche, soprattutto tra i giovani, chi vive la parrocchia come luogo di transito: ad una più o meno fuggevole esperienza, in cui li si “utilizza” in qualche attività catechetica o di animazione, senza che faccia seguito la maturazione di una appartenenza frutto di una ricerca e di una scoperta di “senso”.

Antonio Mastantuono

La parrocchia del SS. Redentore in Internet

Ci abbiamo pensato su qualche tempo, poi la decisione, e finalmente la parrocchia del SS.Redentore è sbarcata nel mondo virtuale di Internet per parlare di Dio parlando di lei, delle sue attività, della sua secolare storia, del suo presente, di come immagina il suo futuro.


Sul blog:http://redentoreruvodipuglia.blogspot.com
e-mail: parrocchiassredentore@gmail.com

andrà in onda, o meglio in rete, l’attualità del SS.Redentore, nella consapevolezza che è necessario essere al passo con i tempi, saper utilizzare per finalità buone e sante uno strumento di comunicazione così importante e che ha accelerato la globalizzazione quale è Internet. Basta un click su un computer connesso ad una rete telefonica per entrare in contatto con realtà lontane o perché realtà lontane si accostino a noi, entrino in dialogo con noi, stimolandoci ad una maggiore apertura e comprensione di quanto accade in Italia e nel mondo. Basta entrare in Internet per accorgersi che esso non è soltanto un luogo dell’effimero, ma un modo di tessere reti di conoscenza e di contatti proficui. Internet può essere uno strumento della Provvidenza e di evangelizzazione nel momento in cui una parrocchia che, come nel nostro caso, ha un taglio culturale grazie alla bella propensione del suo Parroco, ai testi che egli ha scritto e divulgato o promosso, nonché al mensile Fermento, che da più di venti anni accompagna la vita della nostra comunità, sbarca sul web e offre ciò che è e ha da dire all’attenzione degli internauti. Per sviluppare un’amicizia, per ottenere suggerimenti, per essere aiutata a comprendere, per parlare di Dio e della sua grazia a chi semmai venisse in occasionale contatto con essa. Dio si serve di tutti gli strumenti per raggiungere i suoi figli e figlie, e non v’è dubbio alcuno che oggi un novello S. Paolo, chiamato l’Apostolo delle genti, si servirebbe anche di Internet per divulgare il Vangelo. La sua diffusione può anzi essere favorita dal fatto stesso che è discreta e rispettosa perché raggiunge la persona nella privacy e nel silenzio della sua postazione. Non c’è violenza o imposizione soft, c’è la scelta precisa dell’utente di entrare in contatto con una realtà spirituale; c’è un bisogno che si manifesta e che desidera ottenere risposte. Dal 1°agosto 2007, data dell’ingresso “ufficiale” della nostra
Comunità in Internet, al 31 agosto 2007, giorno in cui scrivo queste brevi note, si sono registrati già 910 contatti! Ne siamo contenti, ed auspichiamo che il loro numero si incrementi e ad essi corrisponda il sentito desiderio di incontrarsi con Colui che è il datore di ogni bene.

S.B.

Ruvo: Alla Ricerca del Teatro Perduto

È notizia non molto fresca di giornata, ma comunque di grande interesse: il Politeama verrà demolito e piuttosto che un teatro o un cinema ci ritroveremo con altre abitazioni, uffici o negozi. È l’ulteriore esempio di quanto stia a cuore dei nostri politici – tranne alcune eccezioni – la questione di dotare la città di un contenitore culturale. Su un sito web dedicato alla nostra città, si confrontano opinioni, talune assai opinabili, di ex sindaci,amministratori ed esponenti politici, da cui emerge tuttavia con nitidezza un fatto inoppugnabile: circa 166.000,00 euro pubblici furono destinati alla ristrutturazione di un edificio privato che avrebbe aperto solo in un’occasione per poi essere restituito ai legittimi proprietari. Quei soldi sono andati in fumo come molte aree verdi nel corso di questa torrida estate. Un eclatante caso di sperpero di denaro pubblico che richiederebbe un esame più approfondito, senza indulgere né in preventive condanne né in preventive assoluzioni.
Suscita notevole perplessità apprendere che taluno non era d’accordo sull’acquisto del Politeama ma a posteriori. Si dice che lo fosse all’atto della stesura del programma amministrativo, ma questo,com’è noto, non conta nulla.
Non si rispettano i contratti,figuriamoci gli accordi politici!
Cambiare idea si può, anzi si deve in presenza di ipotesi di reato, di illeciti amministrativi, di atti illegittimi. Sarebbe interessante capire per quale recondita ragione ci fu il dietrofront, e come mai si tiri oggi in ballo il Cinema Giardino quando non ci si oppose ieri alla sua demolizione. Negli esiti ultimi, e a prescindere dalle crisi di coscienza di talune belle quanto vecchie anime, sarà abbattuto il Politeama come lo fu il Giardino. In questo c’è una coerenza che mette i brividi.
Devo mio malgrado sottoscrivere il pensiero di Schopenhauer a proposito della storia: “Clio, la musa della storia, è tutta quanta infetta di menzogne,come una prostituta di sifilide”. Nel senso che tranne quel punto fermo ed oggettivo della spesa, la vera storia del Politeama, luogo storico di Ruvo a prescindere dall’amianto e dai ratti, probabilmente non si conoscerà mai, o troppo tardi. Si alzano cortine fumogene, si parla di intrecci economici e politici, i distinguo si fanno oltremodo sottili, i sussurri si perdono nei palazzi del potere come guizzi di lucertole, quel po’ di verità che può attingersi dalla lettura degli atti pubblici nulla ha a che fare con i retropensieri o le logiche che li determinarono, con gli accordi politici più o meno palesi.
Del resto non è una novità che in Italia e nel mondo talvolta si dia veste giuridica formalmente ineccepibile a quanto de facto e secondo il comune senso del pudore ed il buon senso del pater familias sarebbe azzardo, stoltezza o leggerezza. Nessuno spenderebbe il proprio denaro per ristrutturare l’immobile di un terzo, ad esempio. Ma se si tratta di denaro pubblico, beh, la cosa cambia. Ai politici l’azzardo viene perdonato, all’uomo comune no, ed in questo sta la sostanziale differenza fra chi fa politica e chi si occupa della propria famiglia: la sostanziale irresponsabilità dei primi, la assoluta responsabilità dei secondi.
Tuttavia, sarei dell’idea di stendere un velo pietoso su tutta la vicenda purché ci si dia da fare per reperire un contenitore culturale che possa restituire dignità e decoro culturale a questo nostro paese.
Da diversi anni viviamo una sorta di assurda spoliazione,abbiamo delegato ad estranei al territorio le nostre sorti, nel solco di quell’adagio secondo cui il ruvese è amante del forestiero. Da molti anni assistiamo a valorizzazioni culturali e a scalate dettate esclusivamente dall’appartenenza ad una precisa area politica. Da diverso tempo il teatro è assente nel nostro paese, e mi riferisco a quello di qualità, non alle sue caricature. Da tempo il sentire comune non è percepito dal potere, la sensibilità comune è tacciata di rozzezza, ci si inventa eventi di straordinaria pesantezza per le avanguardie intellettuali o culturali. Il “pochi ma buoni” non mi trova affatto concorde, è l’altezzoso vezzo di chi tende ad escludere più che ad includere. Da circa un decennio, tranne qualche sprazzo o atto di buona volontà, la politica ruvese ci regala malesseri e gocce di Valium.
È tempo di inaugurare una nuova stagione politica, purché non la si chiami “primavera”,termine già abusato e naufragato in una sorta di perenne ombrosità autunnale. Si parla di nuove formazioni politiche, nasceranno anche a Ruvo, ma la mia secca domanda è: se non cambia il contenuto, a che pro un nuovo contenitore?

Salvatore Bernocco

Nel Mese

Dopo le attente verifiche da parte dei gruppi, associazione e movimenti ci si è avviati verso la pausa estiva che non ha comunque fatto disattendere da alcuni impegni programmati, come i momenti di adorazione e quelli di preghiera in preparazione alle festività di S. Anna e S. Rocco, adeguatamente preparati dal Consiglio Pastorale e dal Sodalizio di S. Rocco. Difatti tutto si è portato a termine con la catechesi che ha reso i momenti di festa più autentici. Il parroco inoltre con alcuni giovani ha partecipato ad una Settimana Biblica tenutasi in agosto a Montefano (Mc) e molto dopo ha avuto luogo la processione di S.Rocco; il simulacro d’argento è stato ammirato da molti fedeli venuti da fuori e dai ruvesi che sono rientrati dal nord. Agosto si è concluso con il camposcuola per le famiglie tenutosi a Bancore di Nardò. Ha dato il suo apporto anche don Mario Iurilli. Come sempre la Comunità è grata al parroco don Pasquale Rizzo per la sua accoglienza fraterna e tutta disponibile.
Il 29 è stato ricordato il 20° anniversario della pia morte del parroco don Michele.


Luca

La Pira diceva che noi credenti oggi siamo chiamati a costruire una città nuova attorno alla fontana antica. La fontana antica è Lui, il Signore Gesù, il Principe della pace… La città nuova dobbiamo essere noi, pietre viventi di questa costruzione investiti come non mai della
missione planetaria di annunciare la pace…
Profeti, dopo aver attinto alla fontana antica la sapienza di cui siamo servi e non padroni, smettiamola di tacere. Ricordiamo che delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio.

Tonino Bello

16 Agosto, Festa di San Rocco

Da "La Gazzetta del Mezzogiorno" di martedì 14 Agosto 2007:


È il copatrono della città
Tutto pronto a Ruvo per i riti in onore di San Rocco
Giovedì la processione e la benedizione del pane


di ANGELO TEDONE
· R U VO. Risale ai primi anni del 1500 il culto dei ruvesi verso S. Rocco, eletto copatrono della città (con S. Biagio e S. Cleto), che sarà festeggiato il 16 agosto. «Tale devozione - scrive mons. Vincenzo Pellegrini rettore dell’omonima chiesetta e studioso di arte sacra locale - è legata non solo alla terribile pestilenza che decimò la popolazione ruvese in quel periodo ma anche alle virtù taumaturgiche del Santo che fu visto come guaritore da tutte la malattie infettive, tutore degli animali, intercessore del mondo prevalentemente contadino della città». Il Santo, si racconta, si presentò al primo magistrato e al vescovo di Ruvo invitandoli a non abbandonare la città poiché si sarebbe fatto intercessore presso Dio, per far scomparire il morbo. In virtù di tutto questo, nel 1503 gli fu dedicata una chiesetta in pieno centro cittadino e da quel momento il culto dei ruvesi fu sempre in continuo crescendo tanto che nel 1703 fu realizzata una statua lignea venerata nella chiesetta mentre nel 1793 lo scultore napoletano Giuseppe Sammartino realizzò una statua argentea rispondente a pieno alla iconografia del Santo. E’ infatti raffigurato con il volto segnato dalla sofferenza, con una veste da pellegrino con fiasca e bordone accompagnato da un cane fedele con il pane in bocca e in atto di mostrare la piaga all’inguine. «La tradizione popolare verso S. Rocco - continua mons. Pellegrini- si riscontra anche in tante produzioni scultoree e di pittura. Basti ricordare le due statue (argentea e lignea), leraffigurazioni del suo volto ricamatesui paliotti e sui quadrisparsi nella case dei ruvesi, l’affresco che si trova nel tempietto dedicato alla SS. Trinità sito sulla via per Terlizzi». La festa liturgica prevede la benedizione e distribuzione del pane con celebrazioni liturgiche e, nel pomeriggio, la processione del simulacro argenteo per le principali vie della città. Non mancherà il tradizionale «mercato delle bagattelle» che animerà per tutta la giornata piazza Matteotti antistante alla chiesetta.

1° Visita Pastorale del Vescovo Don Gino

Lettera del Vescovo per la Comunità
del SS. Redentore a conclusione
della S. Visita pastorale


Al Carissima don Vincenzo Pellegrini
Parroco delia Parrocchia "SS. Redentore"
in Ruvo di Puglia
Salute e benedizione nel Signore


Ho iniziato con immensa gioia la Visita pastorale nella tua Parrocchia il 10 dicembre u.s., accolto dalla gente piena di stupore e di simpatia, continuandola poi nei giorni successivi, fino al 16 dicembre 2006.
Ho notato l'impegno e il sacrificio con cui hai lavorato a servizio della comunità in ben ventitre anni del tuo ministero come parroco, nonostante le difficoltà derivanti dall'angustia degli spazi, al centro della città.

Tanti sono stati gli incontri con le persone: per le strade, nei negozi, negli uffici, nelle case dove spesso sono entrato per incontrare i malati e portare loro il conforto dell'Eucaristia. Da tutti, ma soprattutto da questi ultimi sono rimasto edificato per il modo dignitoso di vivere la sofferenza.
Non solo. Sono stato colpito anche dalla tenerezza con cui questi fratelli e sorelle venivano assistiti e accuditi.
Ho incontrato il Consiglio pastorale parrocchiale e il Consiglio per Affari economici: ho ricordato al primo l'importanza della collaborazione nella programmazione pastorale parrocchiale annuale, in conformità alle indicazioni diocesane, al secondo il compito di redigere i bilanci, di collaborare nell'amministrazione della parrocchia e rendere pubbliche le entrate e le uscite del bilancio parrocchiale.
Molto proficuo è stato l'incontro con i catechisti, gli operatori pastorali, l'Azione cattolica, i Neocatecumenali, i gruppi di P. Pio e Riparazione Eucaristica, nonché quello dell'assemblea generale parrocchiale in cui sono emerse le problematiche del cammino pastorale nell'odierna situazione, cercando di individuare le strategie possibili per un rinnovato impegno nel trasmettere il Vangelo alle nuove generazioni.
Ho vissuto un bellissimo momento di festa con i fanciulli nella chiesa dell'Annunziata, insieme ai catechisti, ascoltando i loro indirizzi di saluto semplici, ma pieni di affetto e i loro canti inneggianti alla pace.
Ad essi ho rivolto l'invito a farsi costruttori di pace a partire dal proprio ambiente quale la famiglia, la scuola, gli amici.
Nell'incontro con le coppie e i genitori, che ho visto molto attenti,ho insistito sull'importanza del compito educativo e in particolare dell'educazione alla fede dei figlie quindi sulla necessità della loro testimonianza, come genitori, chiamati a
rendere ragione della propria fede in una situazione culturale non del tutto favorevole al fondamentale istituto familiare.
Ho notato con quanta attenzione con quanta sensibilità il Volontariato Vincenziano si prende cura delle membra sofferenti della comunità: ho chiesto loro, insieme alla Caritas parrocchiale, di essere scuola di amore nel segno del buon Samaritano.
Nell'incontro con la Confraternita di San Rocco ho sottolineato la
necessità di una formazione adeguata per i confratelli e le sorelle, di una
collaborazione più intensa con la Parrocchia.
Ho avuto, poi, la gioia di celebrare il santo Battesimo a dei bambini, così che l'affollata assemblea liturgica ha avuto l'opportunità di ripensare alla
bellezza della fede cristiana.
Ritengo ora necessario ed utile dare alcuni suggerimenti per una maggiore crescita della comunità tenendo conto dì quanto da me rilevato ed anche delle risposte al Questionario compilato per la Visita pastorale.

  1. Favorire incontri periodici in cui
    operatori pastorali e i membri dei vari gruppi si trovino insieme per pregare, ascoltare la parola di Dio, crescere nella fede, sviluppare la comunione;
  2. dare impulso alla pastorale giovanile, in collaborazione con le altre parrocchie della città, valorizzando il progetto di pastorale giovanile "Con Cristo sui sentieri della speranza";
  3. rapportarsi costruttivamente con le altre comunità parrocchiali in modo da favorire una sincera collaborazione con tutti e poter esprimere un'efficace azione di pastorale
    integrata.

Ti prego di portare a conoscenza di tutta la comunità la presente lettera nei modi che riterrai opportuni.
Augurando a te,carissimo, di continuare a profondere il tuo impegno generoso a servizio del Signore e della comunità e augurando nel contempo a tutta la carissima comunità di crescere sempre di più nell'amore al Signore, nella comunione fraterna e nell'impegno della nuova evangelizzazione, vi saluto e invocando la protezione della Vergine Maria vi benedico con grande affetto assicurandovi di portarvi nel mio
cuore e nella mia preghiera.

Molfelta, 9 febbraio 2007
Festa di San Corrado


Sotto, tutte le pagine di Fermento, Gennaio 2007, ANNO XXI-N.1, con "La Relazione del Parrocco per la Visita Pastorale". Clicca sulle immagini per ingrandire.







Don Tonino



Da FERMENTO, ANNO XVIII - N.10, Ottobre 2004
"Alcune suggestioni in margine a un Convegno promosso dalla Pro Civitate Christiana di Assisi sulla figura del vescovo Don Tonino Bello" di V.P.


Non ho potuto sottrarmi a un appuntamento affatto celebrativo, ma ricco di approfondimenti dei contenuti operativi ed, inquietanti del messaggio di Don Tonino Bello, mirante al rapporto tra comunione e comunità secondo le direttive del Vaticano II, punti forza della sua azione pastorale, quasi un anelito di rinnovato francescanesimo.
Il programma del Convegno su Don Tonino, promosso dalia Pro Civitate Christiana di Assisi, articolalo in magistrali relazioni dei vescovi Martella, Semeraro, Bregantini e Bettazzi e dei professori Gualtiero, Sigismondi. Enrico Peyretti e Donalo Valli, conferma l'idea - come lo stesso professor Valli afferma - che tutto l'insegnamento di Don Tonino è basato sulle "parole", o meglio sulla costruzione di una architettura di linguaggio compatto, che si frantuma in una molteplicità di immagini forti, tese a comporre l'unità della "Parola".
Mi soffermo soltanto su alcune suggestioni provocate dall'interessante e profonda relazione del Vescovo Mons. Luigi Martella, successore sulla cattedra della diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo,Terllzzi, che fu di Don Tonino Bello tra il 1982 e il 1993. Dovendo trattare della visione di Chiesa e i suoi rapporti con il mondo e dovendo delineare le linee fondamentali deli'ecclesiologia in Don Tonino Bello, Mons. Martella esordisce affermando che, "una caratteristica riconosciuta ed evidenziata da tutti e che non è molto difficile scorgere in Don Tonino Bello, è che egli non pensava le parole, ma le viveva" cosi pure della Chiesa: "egli non pensava, ma viveva la Chiesa, quella conosciuta e delineata dal Concilio Valicano II. Citando un'acuta osservazione, del vescovo Masseroni, il quale afferma che tra i rischi della comunità ecclesiale oggi, v'é quello della fuga dalla storia, Mons. Martella sostiene che in Don Tonino questo rischio non c'è mai stato perché egli mette in evidenza, nello stile e nelle opere, soprattutto la Chiesa della "Gaudium et Spes" - con il necessario aggancio di questa con la "Lumen Gentium" e il resto del magistero conciliare. Con la "Gaudium et Spes" - affermava il Vescovo Don Tonino Bello - la Chiesa planava dai cieli della sua disincantata grandezza e sceglieva di collocare definitivamente il suo domicilio sul cuore della terra.
La visione di Chiesa in Don Tonino, afferma Mons. Martella, può essere così formulata: La Chiesa: "indice puntato verso il Regno di Dio"; "relatività della Chiesa rispetto al mondo; la Chiesa serva del mondo; la Chiesa sentinella di speranza nel mondo.

Scrive Mons. Bello che "secondo la dottrina del Valicano II è da escludere ogni identificazione del Regno con la Chiesa, ma è anche da escludere ogni dissociazione tra le due realtà". E a proposito della Chiesa, quale sacramento universale di salvezza, Don Tonino preciserà che la salvezza non è un "debole desiderio divino" ma forza efficace che si rivolge ad ogni individuo e ha i suoi limili solo nella libera volontà che si oppone.
Opportunamente Mons. Martella nella sua relazione riporta il pensiero di Mons. Bello a riguardo: "la Chiesa oggi, deve sperimentare l'umiltà e la gioia di camminare insieme agli altri, sia pure di cultura diversa, di mentalità, di religione diversa, perché tutti abbiamo le stesse speranze. Soltanto che le nostre speranze, di noi credenti vanno più in là". Non manca poi Mons.Martella di riportare un altro passo in cui parlando dell'approdo finale della Chiesa, Don Tonino afferma che "la stazione di partenza della Chiesa è la Trinità come anche quella di arrivo, per cui Ecclesia de Trinitate e poi Ecclesia ad Trinitatem e aggiunge poi che lungo il percorso tra la stazione di partenza e la Chiesa c'è una tappa intermedia che si chiama Eucaristia... Il percorso, però non finisce qui, perché la Chiesa va verso la Trinità. Anche qui c'è una stazione intermedia che è il mondo. La Chiesa è per il mondo, la Chiesa è fatta per il mondo". La Chiesa deve agganciare il mondo per portarlo a Dio. Esodo e itineranza per una tensione missionaria caratterizzano poi la Chiesa che va verso il mondo. Memorabile il pronunciamento di Don Tonino al termine di una celebrazione dopo la riapertura al culto della mia parrocchia dopo il restauro: "Comunità del Redentore, esci dal tempio e va in piazza per ascoltare l'ordine del giorno che la gente ti detta". Una Chiesa estroversa quindi che - come annota Mons. Martella - per Don Tonino non significa Chiesa che si esaurisce nel "fare" fino a perdere la sua identità e la sua nutrice divina, ma è sempre la Chieda che annuncia e che vive la santità evangelica.
La Chiesa poi deve essere "segno" ma anche "strumento" perché il mondo deve guardare a Lei un pò come alla fotografia di quello che lui sarà un giorno. Di qui l'immagine di "Chiesa del grembiule" che incarna l'ideale evangelico che secondo Mons. Bello non totalizza indici altissimi di consenso. Ma è la strada del servizio che va ripresa, della condivisione, del coinvolgimento in presa diretta sulla vita dei poveri. E, servire è amare. Ai giovani della mia Comunità affermava in un incontro: "Chi non vive per servire, non serve per vivere ". Ricorda ancora Mons. Martella rhe tutta l'attività di Don Tonino non può essere vista sotto il segno dell'anticonformismo di tipo ideologico, tanto meno del disgusto per tutto ciò che non andava nel mondo. I cristiani devono vivere dentro "un già", in continua tensione verso un "non ancora" e sanno che il loro compito è quello di testimoniare un "già " che è presente, in questa storia. Siamo chiamali - scrive Don Tonino - ad essere annunciatori di speranza. Cantate la speranza, affermava alcuni giorni prima della morte, e se io non potrò immergermi nel vostro concerto, posso darvene ancora l'intonazione. Avere sussulti di speranza per raggiungere la città ove la gente soffre, muore, si dispera, raggiungere anche le strutture e le istituzioni pubbliche:
questa è la diaconia, il servizio più forte che dobbiamo dare alla città, al mondo che se ne è andato per i fatti suoi.
Concludendo, Mons. Martella, ha afferemato che quella di Don Tonino non e mai stata una testimonianza fuori dal tempo o al di sopra delle vicende, ma vissuta dentro, correndo il rischio delle scelte particolari. La sua preoccupazione fu di immettere nella parzialità del tempo le ragioni della compiutezza affinchè esse muovano la stessa verso il suo senso finale. E in ciò la Chiesa ha un ruolo insostituibile. Don Tonino ha convinto tanti e convince ancora che l'abito più adatto della Chiesa è quello più discreto, cioè "il grembiule del servizio" che la pone ai piedi del mondo. "Ricorda - mi disse insediandomi come primo parroco del suo episcopato - che questa non è una presa di possesso, ma di servizio". Don Tonino è stato un vero testimone.

Il 1° Sinodo Parrocchiale


In occasione dei 90 anni della istituzione della nostra Comunità Parrocchiale, il Consiglio Pastorale ha deciso di celebrare questo importante anniversario con un SINODO PARROCCHIALE, cioè un Convegno, per studiare la strada da percorrere insieme nel vasto e complesso futuro che si va facendo presente e in prospettiva del Terzo Millennio. (Febbraio 1994)



13 Marzo 1994, il Vescovo mons. Negro consegna al parroco Don Pellegrini gli Atti del Sinodo Parrocchiale.

Clicca sulle foto per leggere gli articoli originali da L'Osservatore Romano: