Sofferenza e morte: “Morire è stare con Cristo”




La malattia è una misteriosa
scala. Si può scendere o salire.
Ma chi crede, sa di salire
e ha come ringhiera
la sua stessa fede.
Soffrire senza credere,
è morire di sete
vicino ad una sorgente.

B. Pascal








Miei Cari,
la solennità di tutti i Santi e soprattutto la giornata commemorativa dei Defunti mi orientano ad alcune riflessioni che volentieri vi propongo mentre diamo inizio al mese di novembre.
Prendo lo spunto da alcune tra le mie letture che a volte trovo leggendo alcuni giornali che facilmente vengono cestinati da menti eccelse. Queste le riflessioni da proporvi: Il Salmo 22 è una delle grandi preghiere di sempre sul mistero della sofferenza e della morte. Il versetto di apertura, “Dio mio … perché mi hai abbandonato?”, fu l’ultimo grido di Gesù al Padre prima di reclinare il capo. La preghiera di questo Salmo esprime con immagini dense e vigorose l’abbandono dell’uomo nella sofferenza. È il momento in cui tutto diventa buio e incomprensibile, mentre il dolore irrompe impetuoso. In realtà non si tratta propriamente dell’assenza di Dio, ma dell’incapacità dell’uomo di dare il consenso alla volontà divina, in circostanze nelle quali la fede è messa alla prova dei fatti. La logica di Dio si scontra con quella dell’uomo che spesso non sa qual è il suo bene. Si obietterà: desiderare di vivere non è un bene? Nemmeno Cristo morente sapeva porre le domande al Padre dei cieli? Certo che sapeva. Il paradosso è che il Padre non interruppe il corso naturale del dolore né la morte. Va ricordato però che S. Marco e S. Matteo, pongono sul labbro di Cristo il grido del Salmo 22 (peraltro recitato interamente) per far risaltare l’estrema amarezza dell’agonia. S. Luca e S. Giovanni, al contrario, evidenziano soltanto la più perfetta adesione di volontà: “Padre, nelle tue mani affido lo spirito mio”. Il dolore è un mistero, ma un
mistero necessario alla nostra crescita. Il pagano Annéo Seneca (I sec. d.C.) riteneva infelice chi nella vita non ha conosciuto l’infelicità. Come porsi davanti alla sofferenza e alla morte? È l’interrogativo che non possiamo non porci questi giorni. Per il poeta Giovanni Pascoli la morte appariva “assai dolce” specialmente nella speranza di ricongiungersi ai suoi “cari morti”. Un atteggiamento di pacata serenità. Il cristiano sente il dolore come prezioso alleato per purificarsi e innalzarsi a quella vita senza confini dove non c’è pianto, né lamenti. La più coerente definizione della morte è in S. Paolo: “Morire è stare con Cristo”. Egli asserisce: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la nudità…? Ma in tutte queste cose noi siamo vincitori in virtù di colui che ci ha amati” (Rm. 8,35-37).
Un anno fa si spegneva don Oreste Benzi, il prete del sorriso che ha lasciato odore di santità sulle strade della notte, dalla prima pagina sollevando centinaia di ragazze dalla schiavitù.
Morendo, raccomandò di evitare manifestazioni di lutto. La gente capì che quel prete era morto in rigorosa coerenza con la sua fede.
Sono questi, miei Cari, i pensieri sui quali mi sono soffermato in questi giorni e che fraternamente ho voluto parteciparVi.

Cordialmente
Don Vincenzo

S. Rocco: il filo refe del cristianesimo e della pietà popolare nell’antica diocesi di Ruvo


Se, molto vaghe sono le notizie circa la venerazione di S. Cleto che la ininterrotta tradizione ruvese annovera come primo vescovo della città e poi terzo Papa, ancora più vaghe sono quelle riguardanti il culto di S. Biagio, divenuto Patrono di Ruvo durante la dominazione bizantina in Puglia. ma – si saquei culti che si sovrappongono non mettono radici solide anche se trattasi di “santi Ausiliari“ come S. Biagio invocato nei mali della gola cui, la secolarizzazione attuale non dà significato alcuno, se non ridotto a piccole frange di devoti che ancora ricorrono a Lui nei mali di gola. Per cui le devozioni allo stesso S. Antonio o S. Cleto o a S. Biagio e addirittura la devozione mariana come quella alla nostra Madonna delle Grazie, vengono superate, ad esempio da quella a S. Pio da Petralcina.
Il filo refe della pietà popolare divenne più marcato in Ruvo intorno agli inizi del’500 e l’egemonia di Venezia fu veicolo della diffusione del culto a S. Rocco nelle città marinare dell’Adriatico ma anche in quelle dell’entroterra come la nostra città. Lo stesso culto a S. Sebastiano invocato nel contagio della pestilenza e affrescato nel transetto della nostra cattedrale, dovette cedere il posto a quello di S. Rocco se nel 1503 si costruiva addirittura una chiesa in suo onore dalla città
che lo elesse suo particolare Protettore. Diventò anche Patrono Minore di Ruvo e il Papa Gregorio XVI indulgenziò il Sodalizio di S. Rocco nel 1576. Al santo di Montpellier fu non solo dedicata la chiesa nella principale Piazza Castello ma fu commissionata nel’700 una statua lignea al Brudaglio, scultore andriese; un secolo dopo la decimazione della città avvenuta nel 1656 a motivo di una terribile pestilenza nell’intera provincia barese, il Capitolo dei canonici della cattedrale non pensò una seconda volta a graduatorie tra i santi, compreso S. Biagio se per propiziarsi S. Rocco, commissionò nel 1793 al grande scultore napoletano Giuseppe Sammartino la stupenda statua d’argento unico esemplare in Diocesi, che veniva gelosamente conservata in alcune case di privati, vicine agli stessi Capitolari e addirittura – per proteggerlamurata volta per volta e riesposta al culto per le grandi feste di settembre che arrivavano a superare la stessa festa dell’Ottavario del Corpus Domini. Così lo stupendo simulacro argenteo non subì la sorte delle meravigliose statue di S. Riccardo e la Madonna dei Miracoli in Andria, del busto di S. Sabino in Canosa e perfino la statua di S. Cataldo a Taranto rubata negli anni ottanta. Delle feste di settembre parla lo storico di Corato P. Cosma Lojodice descrivendo un episodio del 1882 tra ruvesi e coratini.
Come descrive la devozione Massone Roberto A. sulla sua Monografia di Ruvo di Puglia: “Indicibili sono le spese che le confraternite religiose, dette congreghe, sopportano per luminarie, spari, apparati, musiche, ecc. Se Napoli ha S. Gennaro, Ruvo ha un santo di non minore importanza, il quale è S. Rocco. S. Rocco, fra le altre cose, è incaricato di far cadere la pioggia quando Domineddio, irritato...”.
Di nessun’altra festa cittadina si conserva addirittura documentazione fotografica dell’800, come per quella di S. Rocco. Né va dimenticato che per tale circostanza - e solo per essa- veniva recitato un componimento sacro- drammatico “La protezione nel voto e Ruvo liberata del contagio per intercessione di S. Rocco”.


Vincenzo Pellegrini

INTERNET e i Bambini

Il 35% dei bambini italiani usa quotidianamente la rete Internet. Una navigazione rischiosa, imprevedibile. I piccoli entrano già a 7-8 anni in contatto col computer
per vedere i Dvd, per fare giochi interattivi, non certo per navigare su Internet.. Poi passano all’uso della rete per trovare siti di interesse ludico o per ricerche scolastiche.
E’ a quel punto che i pericoli di “incontri insidiosi” diventano probabili. Si richiedono controlli tecnologici, ma poiché Internet non può essere bloccato, compete alla famiglia accompagnare i ragazzi nell’uso di un mezzo molto più rischioso della tivù. Ma anche la famiglia ha bisogno di essere guidata in questo compito. Nei siti da loro gestiti, i providers debbono fornire una serie di informazioni per un uso consapevole della rete. Per esempio, debbono spiegare dove si
possono trovare filtri per impedire ai minori l’accesso a siti illeciti. Si chiama “navigazione differenziata”. Il tenore di queste considerazioni lascia l’amaro in bocca ai genitori, che per lo più ne sanno meno dei figli sulle diavolerie del computer. Morale della favola: chi ha il computer in casa ha l’obbligo morale di conoscere sempre meglio il mezzo che i figli usano.


G. S.

Intervento al Sinodo sulla Parola di Dio

Iniziazione per i lontani nelle parrocchie
Francisco Josè Gòmez - Arguello Wirtz
Co-Fondatore del Cammino Neocatecumenale

Sono riconoscente al Papa per l’invito a partecipare a questo Sinodo, e soprattutto
siamo profondamente grati per l’approvazione definitiva dello statuto del Cammino neocatecumenale, che lo riconosce come frutto del Concilio, lo definisce come una modalità di attuazione diocesana dell’iniziazione cristiana e dell’educazione permanente della fede, lo dota di personalità giuridica pubblica, e lo offre ai vescovi come uno strumento al servizio della loro missione di evangelizzazione.
L’annuncio del kerygma: che Dio ha risuscitato dalla morte Gesù e lo ha costituito Kyrios, perché si possa annunciare a tutti gli uomini la conversione e la vita eterna: Dio c’è l’ha fatto vivere e sperimentare con grande sorpresa e meraviglia in mezzo ai poveri delle baracche di Palomeras Altas in Madrid, dove abbiamo scoperto il tripode sul quale si basa la vita cristiana: parola di Dio, liturgia e comunità.
Nelle catechesi iniziali i neocatecumeni ascoltano la predicazione del kerygma e ricevono le chiavi ermeneutiche necessarie per l’ascolto della Parola: vedere in Gesù
Cristo il centro e il compimento delle Scritture e mettere i fatti della propria vita
sotto la luce della Sua Parola.
Quest’iniziazione alla Scrittura viene sigillata in una celebrazione della Parola, in
cui i partecipanti ricevono la Bibbia dalle mani del vescovo, garante della sua autentica interpretazione. Iniziano così un cammino di riscoperta della fede alla luce della Parola che illumina la propria storia come storia di salvezza.
Il Cammino neocatecumenale, ora approvato definitivamente dalla Santa Sede, è così uno strumento offerto ai pastori della Chiesa per l’attuazione della nuova evangelizzazione, che apre un cammino di iniziazione cristiana per i lontani nelle parrocchie.


da L’Osservatore Romano

Il tratto finale, poi lo splendore

Bar della stazione, in attesa del treno. L’anziano signore, molto distinto, ordina caffè e brioche e poi, con lentezza e precisione, estrae una scatolina e trae due pasticche.
L’età che avanza domanda anche questo, ho subito pensato: la salute va gestita con cura e molte attenzioni. Ricordando gli ultimi mesi di vita del papà, un puzzle di medicinali da assumere in orari prescritti, senza “scampo”: per fortuna c’era mamma a vigilare…
Il tramonto della vita è una fase, più o meno lunga, che a molte persone è concesso di gestire con una certa libertà di movimenti e varietà di scelte personali: nessuno ama invecchiare (e ancora meno sentirsi dire vecchio o essere considerato inutile), ma senza dubbio molti oggi godono di possibilità un tempo impensabili.
E in ogni caso, comunque sia stata la vita, l’ultimo tratto sarà il più impegnativo: come lo sprint finale in una gara di corsa, come il sentiero più scosceso prima del rifugio alpino… Per questo ci viene raccomandata dal Signore e dall’esperienza della chiesa la vigilanza. Ricordo l’impressione che in me, giovane prete, faceva una frase del vescovo Franceschi: “Pregate per me il Signore, che mi conservi fedele”. Il vescovo che chiedeva per sé la perseveranza! Era un uomo sapiente, e poi ha passato la prova decisiva esemplarmente, con la viva luce della fede.
Non va però dimenticato che oltre il tratto finale c’è un traguardo d’incredibile bellezza e sorprendente meraviglia. Per quanto sia difficile l’erta conclusiva, qualunque sia la prova da attraversare, “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi”. La parola della rivelazione ci dà questa speranza grande, non possiamo far finta di niente, non ha senso trascurarla o sottacerla!
A noi spetta allungare lo sguardo oltre l’oggi - talvolta pesante e duro - e affidarci alla promessa che poggia sugli insegnamenti di Gesù. Anzi, sulla sua risurrezione, principio di vita nuova, felice, eterna.


Cesare Contarini

“Dalle buone scuole e dalle buone strade si conoscono i buoni governi”

É quanto recita un proverbio italiano. Lo condivido in pieno. Anzi, direi che la strada maestra per svuotare le carceri consiste nell’avere scuole dove si insegni ai giovani l’arte del benvivere, dove si impartisca la buona educazione, dove la cultura non sia solo erudizione inutile e spocchiosa, ma sapere legato all’esperienza e diretto all’inclusione nel mondo del lavoro. Una scuola nozionistica che non impartisca insegnamenti è semplicemente inutile, ragion per cui non posso che essere d’accordo con chi, pensando alle università italiane, sostiene che sfornino inutili e costosi corsi ad uso e consumo dei docenti (e del familismo di casta) piuttosto che degli studenti. Se in molte università si promuove la sistemazione di figli e parenti invece che la bontà degli studi, è bene che si attacchino con estremo rigore privilegi e sprechi, accompagnando garbatamente alla porta baroni e burocrati che si sono pasciuti col denaro pubblico. Costoro fanno parte, insieme alla vasta schiera di capi, capetti e dirigenti superflui, di quella che Leonardo Sciascia definì la “classe digerente”, autentico scandalo italiano, amplificato dall’anomalia per cui nessuno è mai responsabile fino in fondo delle sue malefatte ed è chiamato a rifondere il maltolto. Una nazione che non coltivi il culto della responsabilità è facilmente preda di bande di predatori, pubbliche e private, e qualcosa dovrebbe suggerire la circostanza, non fortuita per l’appunto, che solo in Italia, che conta circa 55 milioni di abitanti, allignino ben tre organizzazioni malavitose (mafia, camorra, ndrangheta) che controllano intere aree ed attività economiche e finanziarie. L’unica attività che non interessa ai signori del malaffare è la scuola, perché essa è fucina di pensiero, di cultura, di saperi, di legalità. Abilita al rispetto di sé e dell’altro, non all’uso delle armi. La scuola di ogni ordine e grado è un argine al dilagare della violenza.
Orbene, le domande da porsi in questo bailamme italiano sono le seguenti: la riforma Gelmini migliora la scuola o la deprime? È una riforma o una storpiatura dell’esistente? Il maestro unico è una conquista o un tuffo nel passato? Sarebbe
deprecabile se alla base del decreto Gelmini ci fosse soltanto l’obiettivo di tagliare risorse e quindi posti di lavoro, creando una nuova categoria di disoccupati professionalizzati. Gli sprechi ci sono, sono tanti, e probabilmente è uno spreco anche corrispondere emolumenti da favola ad una moltitudine di politici, consiglieri, consulenti e portaborse (il ministro Brunetta dovrebbe installare i tornelli anche all’ingresso di Montecitorio e Palazzo Madama). Un vero disegno riformatore non tiene conto solo degli aspetti economici, che pure sono importanti, ma risponde alla domanda di cultura e di nuove professionalità che sale dal Paese, dalle sue articolazioni economiche e culturali. In un contesto globalizzato quale è quello in cui viviamo, i ritocchi di facciata servono a poco, ciò che conta è la sostanza della proposta e le sue concrete prospettive. Una scuola ed una università all’altezza dei tempi postulano una seria razionalizzazione delle risorse, l’eliminazione delle caste e che si ritorni a studiare sul serio. Quando avevo qualche anno in meno anch’io ho scioperato. Mi ricordo che mettemmo a subbuglio l’istituto tecnico per ragionieri di Corato per un mese intero. Le nostre richieste erano sacrosante, e forse gli studenti che oggi scioperano sono anch’essi convinti di scioperare per una giusta causa. Sono in buona fede? Chissà! Il dubbio sorge spontaneo quando ci si accorge che una parte politica si appropria o sponsorizza le manifestazioni studentesche. I giovani forse non se ne avvedono, ma la protesta ed il disagio possono essere facilmente strumentalizzati per fini che niente hanno a che vedere con la scuola. Del resto, rammento spesso a me stesso, memore dei recenti
raduni romani, che chi oggi si oppone a tutto e sostiene che gli italiani sono migliori di chi li governa, ieri era al governo del Paese (non in Papuasia) e porta la responsabilità di essere rimasto a guardare. Anche ieri gli italiani erano migliori della classe politica che li governava. Per concludere con un certo rammarico che, in qualche misura, lo saranno anche in futuro, sempre.

Salvatore Bernocco

Leggi, molto lentamente!

Il giorno più bello? Quello d'oggi.
L'handicap più grande? La paura.
La cosa più facile? Sbagliarsi.
Il difetto più grande? L'egoismo.
Il più grande errore? Trascurare.
La distrazione più sana? Il lavoro.
La più grande gioia? Donarsi a gli altri.
La peggiore bancarotta? Lo scoraggiamento.
Gli insegnanti migliori? I bambini.
Il più basso dei sentimenti? La gelosia.
Il regalo più bello? Il perdono.
La conoscenza più importante? Dio.
La cosa più bella del mondo? L'amore verso Dio e i fratelli.



“La campana,
col suo tocco,
è il segno insostituibile
di richiamo.
La sua nota
ricorda il tempo
che inesorabilmente scorre
ed invita tutti
ad unirci in Cristo
nella gioia e nel dolore.”

Nel Mese

Con rinnovato entusiasmo abbiamo dato inizio alla pratica del mese mariano che quest’anno ha assunto una particolare connotazione per la celebrazione del Sinodo sulla”Parola di Dio” che è stata al centro di tutto il mese del Rosario che - come non mai - ha visto la partecipazione di tanti fedeli della zona nord della città. Dopo la celebrazione del “Mandato” ai catechisti che quest’anno assumono particolare rilievo per alcuni sussidi audiovisivi complementari. Abbiamo intanto voluto ricordare il M° Cantatore nell’anniversario della sua scomparsa e molto proficui sono stati i vari incontri con i responsabili dei vari settori della pastorale. Assai partecipata la conversazione sui temi della famiglia condotta dal Prof. Biagio Pellegrini preside del Liceo scientifico; anche i vari e diversificati interventi hanno arricchito la discussione che, ne siamo certi, porteranno frutti. L’adorazione
mensile animata dal Gruppo eucaristico parrocchiale e da quello di P. Pio hanno coronato l’intero mese di ottobre, mentre la solenne Eucarestia del 31 ottobre ha costituito il momento bello di conclusione del mese del Rosario.

Luca



Foto: Pompei 1° Novembre - Pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Rosario
(un gruppo di partecipanti)