UN CONCILIO DA ATTUARE

A cinquant’anni dalla sua conclusione il Concilio Vaticano Il è sempre attuale, la sua lezione, le sue proposte e scelte di fondo straordinariamente moderne. E invece lenta e ancora lontana da un compimento armonico la sua reale ricezione. Il Concilio fu universale perché cattolico, ecumenico perché «di e per» il mondo intero, storico perché seconda fase, nuova, di un percorso iniziato nei decenni precedenti. Di esso i tratti che vorrei sottolineare sono: il suo carattere comunionale sotteso alla priorità data al popolo di Dio prima che a ogni organizzazione gerarchica; l’indole peregrinante ed escatologica nella sua incarnazione nel tempo e nella storia, che porta alla dismissione di ogni trionfalismo a favore di una compiuta e compartita sinodalità; la vocazione alla santità che è comune a tutto intero il popolo di Dio. È un’elencazione parziale di alcuni dei temi innovatori. E se oltre alla Lumen gentium ci si apre agli altri documenti del Concilio, questi e altri motivi si trovano intrecciati nel segno dell’epifania della chiesa che è l’azione liturgica (Sacrosanctum concilium) o della Parola di Dio (Dei Verbum) che è fondamento ecclesiale, o ancora della solidarietà simpatetica che lega chiesa e mondo (Gaudium et spes). Per non parlare dell’ecumenismo (Unitatis redintegratio), delle religioni non cristiane (Nostra aetate), della libertà religiosa (Dignitatis humanae), della missione (Ad gentes), dell’apostolato dei laici (Apostolicam actuositatem) e così via. Il Concilio non ha sciolto tutti i nodi. Basta pensare ai tre problemi che Paolo VI avocò a sé: la regolamentazione delle nascite, l’ammissione delle donne al ministero sacerdotale e il celibato dei preti. Sono problemi che hanno avuto una accelerazione impetuosa negli ultimi due decenni e hanno ricevuto risposte parziali e in varia misura restano dunque aperti. C’è un passaggio nel discorso di chiusura del Concilio di Paolo VI che riporto integralmente perché considero di grande profezia e attualità: «Qual è il valore religioso del nostro Concilio? [...] L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere, ma non è avvenuto. L’antica storia del samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso [...] La religione cattolica e la vita umana riaffermano così la loro alleanza, la loro convergenza in una sola umana realtà: la religione cattolica è per l’umanità» (Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II). Riparto da qui per la mia riflessione. PER IL TERZO MILLENNIO Credo che la Chiesa, per sopravvivere, abbia veramente bisogno di scoprirsi costituita da una varietà di soggetti e di investire al meglio questa sua ricchezza. Animata dallo Spirito essa risulta composta di uomini e donne, a cui l’iniziazione cristiana conferisce il carisma-ministero fondamentale che tutti riconosce, nella triplice dimensione di re, sacerdoti e profeti. Su questa radice unificante ed esaltante vanno poi scoperti, alimentati e trafficati i doni propri a ciascuno e ciascuna. Sicché veramente appaia la dinamica costitutiva e gratuita dello Spirito e la Chiesa possa sino in fondo realizzare la sua indole di sacramento di salvezza.‘È chiaro, infatti, che il problema non è sopravvivere comunque, ma realizzare davvero il progetto di Dio che ci raduna come Chiesa. La Chiesa non esiste solo per quelli che le appartengono. Essa realizza la sua ragion d’essere solo nella misura in cui è portatrice del sacramento di salvezza. La Chiesa è per il mondo, i cristiani sono per gli altri. E l’una e gli altri sono tali solo se veramente interiorizzano le gioie e le speranze dell’umanità intera. Ma poiché il termine umanità potrebbe di nuovo ricondurci a un’astrazione, il discorso verte ancora sulla compiutezza di luogo, tempo e cultura. Occorre parlare tutte le lingue, dire la fede a ogni latitudine, inculturarla sempre e comunque, nell’Occidente secolarizzato come nelle altre situazioni e realtà di un cristianesimo che è minoranza e testimonianza a volte complessa che può portare fino al martirio per la professione di fede in Gesù risorto. È soprattutto la forza testimoniale che rende seducente e appetibile la scelta cristiana. La Chiesa può passare il testimone (di generazione in generazione) solo se interiorizza la condizione umana, se la fa sua sino in fondo, se elabora risposte concrete, che toccano i bisogni degli uomini e delle donne d’oggi. E, tra di essi, credo vadano annoverati innanzitutto quelli relativi alla pace, alla giustizia, alla dignità che è un diritto per ogni essere umano, uomo o donna. Una Chiesa che già al suo interno pratichi la giustizia e accetti ogni diversità come dono, che elabori regole proprie secondo le culture diverse, che ridica l’unica parola, l’unica fede, l’unico Cristo nella molteplicità diversa delle lingue, che rinunci a sentirsi potente, ma si faccia serva, sempre e comunque, che non disattenda il compito profetico della denuncia e della consolazione, che sia veramente compagna di ogni uomo e di ogni donna e ne faccia propria la vita. Una Chiesa corpo crismato che veramente faccia proprio il corpo negato o straziato d’ogni essere umano. Una Chiesa nel segno della «compassione».

Luca Rolandi